Rivedere oggi Un tram che si chiama desiderio

Appunti su un film ritrovato - Parte I

focus top image

Ritrovare un film, non solo dentro un archivio, al fondo di un baule, ma nella propria memoria, nel proprio immaginario. Ritrovare un film, cioè rivederlo e, durante la visione, riscoprirlo. A questo serve un festival, bellissimo, come Il Cinema Ritrovato di Bologna.

Un tram che si chiama desiderio di Kazan, ad esempio, rivisto su grande schermo nell'omaggio a Marlon Brando, proiettato in una versione digitale restaurata dal negativo originale, con quel bianco e nero splendente, in certi momenti contrastato, in altri sfumato nella nebbia di New Orleans ricostruita in studio, con quel continuo movimento di attori e di parole, come una scena teatrale in cui la quarta parete fa parte del gioco e destabilizza ogni cosa, a cominciare dallo spettatore, è un film che rimette in discussione tutto: le aspettative di fronte a un classico, i ricordi dell’universo di Tennessee Williams, la reazione di fronte alla potenza sessuale di Kowalski, alla fragilità di Blanche, al suo orgoglio di donna manipolata e manipolatrice (isterica, sì, ma orgogliosamente padrona dell'appetito sessuale), di fronte a tutto quel sudore e a quel vapore, a quella luce che filtra attraverso le veneziane e a quel fracasso di una vita così complessa e contraddittoria, così lunga e così meschina, da essere rappresentata solamente in un film così, che è quadridimensione e dove ogni personaggio ha almeno tre anime dentro di sé e un corpo solo a vestirle tutte (e vestirle in senso letterale, ché nemmeno in Visconti i costumi hanno mai avuto così tanta importanza: vestiti indossati, tolti, strappati, ispezionati, toccati, bagnati, giudicati...).

Un tram che si chiama desiderio è un film di parole, di tante, tantissime parole. Ma che si affida soprattutto ai corpi per mettere in scena lo spirito indomito e distruttivo rappresentato in forme e modi diversi da suoi due protagonisti, Kowalski e Blanche. Lui, Brando, che si denuda, che suda, che espone i muscoli, che gioca con la voce stridula, che strepita, che tira le cose, che fa il matto e nessuno che lo fermi, tutti che lo temono e lo adorano. Lei, invece, Vivien Leigh, che veleggia con i suoi vestiti vaporosi, i suoi capelli fini e delicati e quello sguardo melenso che sa però farsi anche furbo e feroce. E poi Karl Malden, che è goffo e bonaccione ma poi gli basta cambiare d’abito per mutare espressione e idea di sé stesso e del mondo. E ancora il finale, così simile a Viale del tramonto (che è di un anno precedente), con la stessa solennità tragica e insieme ridicola, la stessa celebrazione di un’illusione che va a morire, ma senza nemmeno il filtro del cinema a mitigare l’orrore: pura e semplice pietà umana. E infine, in maniera sorprendente, il corpo di Blanche distesa a terra, bloccata a forza da un’infermiera, di spalle e bionda, che anticipa l’immagine del cadavere impagliato della signora Bates in Psycho, rappresentazione spaventosa, da vero racconto dell'orrore, di uno spirito femminile messo a tacere, finalmente controllato, dopo aver sedotto e distrutto ogni consapevolezza dello sguardo.

Anche questo un film infinito.