Il calcio – benché molti siano convinti del contrario – è uno sport unico nel suo genere e per certi versi è la sintesi perfetta (o il superamento) di tutti gli sport di squadra. La sua enorme popolarità deriva probabilmente dall’essere l’unico gioco che chiunque in qualsiasi luogo si trovi possa praticare: non serve nient’altro che uno spazio aperto, una palla e abbastanza persone con cui formare le squadre. Ciò che però lo rende unico e diverso da tutti gli altri sport è un bizzarro rapporto fra l’intensità del gioco e il sistema del punteggio. Nel calcio si corre, si lotta e si riversano grandi dosi di agonismo e di energia ma si segna poco. Questo fa sì che l’imprevedibilità sia enormemente maggiore rispetto a quella degli altri sport di squadra che hanno una percentuale di realizzazione superiore (se si segna tanto è più probabile che la squadra più forte vinca) come rugby, basket, football o pallanuoto e hockey, ma anche di quelli, come il volley, che hanno un punteggio massimo da raggiungere per assegnare la vittoria. C’è però chi – soprattutto negli Stati Uniti – considera questa bassa percentuale di realizzazione un intralcio alla spettacolarità, nonché il fatto che tanto agonismo e intensità producano così poche segnature, qualcosa di estremamente noioso (cosa che per altro renderebbe, secondo alcuni, il calcio per molti versi simile al baseball, l’unico altro sport in cui il risultato di 1-0 capita con un’altissima frequenza).
Queste critiche sono state recepite molto seriamente dagli organi che regolamentano il calcio e nel corso degli anni sono stati diversi i tentativi di modificare le regole del gioco per incentivarne la spettacolarità. Ma, come ogni amante del calcio sa, in tanti anni di vita lo sport più popolare del mondo ha subito pochissime variazioni al regolamento e, anche quelle che ci sono state – più delle correzioni, che veri stravolgimenti – hanno modificato in maniera davvero marginale l’impianto del gioco. Questo perché strutturalmente il calcio è uno sport fortemente codificato, amministrato da un’organizzazione complessa, che dal vertice della Federazione Internazionale (la FIFA), digrada in forma piramidale alle leghe continentali e poi nazionali. Una colossale rete di competenze, interessi e affari che non solo sposta monumentali quantità di denaro, ma ha anche la responsabilità di proteggere l’originalità del gioco assecondandone anche il lato spettacolare.
Eppure esiste chi continua a immaginare il calcio come qualcosa che si possa modificare, trasformare, addirittura stravolgere, al fine di renderlo più dinamico, scenografico e maggiormente appetibile ai gusti del pubblico (o almeno a una parte di esso). È il caso del protagonista di Infinite Football – l’ultimo documentario di Corneliu Porumboiu – Laurențiu Ginghină, fratello di un ex compagno di scuola del regista che ha passato buona parte della vita a pensare un sistema di gioco e di regole nuove per migliorare il calcio proprio là dove secondo lui difetterebbe: nella staticità e nella bassa percentuale di realizzazione. Porumboiu mette insieme una lunga intervista a Laurențiu e lo segue durante alcune ore della sua giornata a casa, al lavoro e in visita ai genitori, mentre l’uomo illustra per filo e per segno il suo metodo per rivoluzionare il calcio. Nonostante questo però, Infinite Football con il calcio non c’entra quasi per nulla.
Quanto detto sin qui è infatti funzionale a ragionare non tanto sullo sport in sé, ma sull’idea che esso è in grado di veicolare universalmente, in quanto sistema di regole, valori e dinamiche comprensibili a tutti. Il calcio è un pretesto dal quale Porumboiu parte per riflettere su una sorta di fantasia che accomuna tutti: cambiare le regole del gioco. Immaginare una realtà differente all’interno di un sistema di valori, è infatti una forma mentale che ognuno di noi conosce e sperimenta in tutti i campi della propria vita. Una specie di rapporto problematico e irrisolto con l’autorità costituita e insieme una convinzione soggettiva di poter immaginare una soluzione diversa (forse migliore) di fare qualcosa. Come dire che in quella partita avremmo schierato una formazione diversa o che se fosse per noi faremmo cinque sostituzioni invece che tre e che il fuorigioco dovrebbe valere solo dalla tre quarti in su, tanto per dire.
Ma se trasferiamo la questione su un piano differente da quello sportivo, per esempio in politica, il problema diventa immediatamente più complesso. Ed è proprio qui che approda il film. Porumboiu mostra come il desiderio istintuale di cambiare le regole sia inglobato in ogni sentimento rivoluzionario. Laurențiu, che fa il counselor negli uffici comunali di Vaslui, la sua città, ascolta i problemi delle persone, fornisce aiuto, consigli e mediazione ai cittadini. In questo modo veniamo in contatto – mentre Porumboiu filma il protagonista sul posto di lavoro – con le questioni irrisolte della società romena e scopriamo che a quasi trent’anni dalla rivoluzione c’è chi ancora aspetta che la propria terra gli venga restituita.
E chi meglio di persone che – come i cittadini romeni – per tutta la vita hanno seguito leggi, principi e direttive imposte dall’alto in maniera coercitiva senza potersi opporre, può capire, ma anche veicolare, il senso che sta dentro a una fantasia come quella di cambiare le regole? Quella che Porumboiu mostra è una società che prova a immaginare, che tenta di capire cosa sia la libertà in rapporto a un ordinamento legislativo. E che per via delle storture del sistema, ma anche di una maturazione non ancora compiuta – dopo trent’anni di una delle dittature più spaventose che l’Europa del dopoguerra ricordi – non riesce a comprendere del tutto. Se non immaginando appunto e cioè provando a scorgere qualcosa di diversamente possibile anche nell’ordinamento democratico.
Se proviamo ad ascoltare i ragionamenti di Laurențiu sostituendo la parola calcio con democrazia scopriamo quindi come qualcosa di estremamente popolare, diffuso, e capace di attecchire ovunque, di essere alla portata di tutti e che si regge su un sistema amministrativo complesso e codificato, possa mostrare difetti organici, ma soprattutto concettuali che ce lo fanno immaginare come perfettibile. Perché in fondo ciò che riveste di significato una struttura sono l’esperienza, la cultura e il carattere sociale della collettività. E come il regista mostra nel finale del film ragionando – attraverso la voce del protagonista – sul fatto che molte parole di uso comune hanno un significato etimologico molto differente da quello assegnato culturalmente, l’accettazione di una regola è solo un’abitudine a non mettere in discussione un sistema di valori precostituito e condiviso collettivamente. Anche se ciò che tali norme restituiscono è qualcosa che non convince, che non piace e sembra non funzionare poi così bene.
E del resto, come si è soliti ripetere nel mondo del giornalismo sportivo, pare che secondo un’antica convinzione degli inglesi – che il calcio l’hanno inventato – il risultato perfetto di una partita è 0-0. Quello più noioso, dove nessuno vince e nessuno perde e che solo nel calcio, guarda a caso, si può verificare. Più o meno come in una democrazia. Più o meno.