Big Little Lies è ciò che qualche anno fa non riuscì a essere I segreti di Osage County: il ritorno di un cinema borghese, mélo, femminile (per quanto quasi sempre scritto e diretto da uomini), principalmente rivolto alle donne e dominato da attrici di prima classe, che almeno fino alla fine degli anni ’80 rappresentò una parte importante della produzione hollywoodiana. Shirley McLaine e Debra Winger in Voglia di tenerezza, o il cast tutto al femminile di Fiori d’acciaio… Storia lontana, che in Osage County sembrò anche storia defunta, ma che Big Little Lies riporta in vita: la lite familiare è semplicemente sostituita da una bega di quartiere che nella baia di Monterey, in California, è una zona di lusso con ville faraoniche, tra madri in Suv che accompagnano i figli a scuola, mogli che restano a casa per assecondare i mariti violenti, donne in carriera rabbiose, ragazze-madri che si vergognano del buco in cui vivono e le solite frustrazioni degli adulti che si percuotono sui loro poveri bambini. È come I peccatori di Payton, per allacciarsi a un’altra grande stagione del melodramma hollywoodiano, quella di metà anni ’50, aggiornato però ai tempi della coolness d’alta classe come modello di vita collettivo. David E. Kelley crea e scrive, Jean-Marc Vallée e Andrea Arnold dirigono, ma a dominare sono le attrici (e i loro personaggi che fanno da motore al racconto): Reese Witherspoon, Nicole Kidman, Shailene Woodley, Laura Dern, Zoë Kravitz. La voce del padrone, oggi, si esprime anche così. (Roberto Manassero)
Dopo aver creato negli anni Zero un evento epocale per la storia della televisione come The Wire, David Simon arriva nel 2017 con quello che è forse l’intervento più “rilevante” possibile in questa congiuntura politica in cui si accavallano l’elezione di Trump, il caso Weinstein e il movimento #metoo. The Deuce si concentra sullo sviluppo del mercato del sesso attorno alla famigerata 42nd Street di New York, la strada accanto a Times Square dove negli anni Settanta proliferava ogni possibile attività legata allo sfruttamento della prostituzione e alla nascente industria della pornografia, allora ancora in una fase di interstizio tra l’illegalità e la legalità. Ma nel microcosmo di papponi, di prostitute alle prime armi appena arrivate a New York o già in parabola discendente, dei gay bar e dei peep shows semi-legali, dei cinema porno e dei grindhouse, si fanno largo tutte le politiche di riqualificazione urbana dell’area e di ridefinizione dei rapporti capitalistici a essa legata, che naturalmente in questo caso passano anche per una ridefinizione dei rapporti di genere. Si tratta in effetti di una serie che mostra qual è l’economia politica della sessualità e la sua dimensione affatto materiale. (Pietro Bianchi)
Il titolo è chiaramente antifrastico. Perché di facile in Easy (la serie antologica creata, scritta e diretta da Joe Swanberg per Netflix) non c'è nulla, come conferma platealmente la seconda stagione rilasciata all'inizio di dicembre. Prima di ogni cosa, non sono facili i rapporti umani, di qualsiasi natura: di coppia, d'amicizia, tra ex coniugi, tra parenti. Per Swanberg, ogni relazione prevede una manipolazione, involontaria o perseguita, smaccata o subdola: qualcuno (il più debole) dovrà rinunciare a qualcosa a vantaggio di qualcun altro (il più forte), mentre anche le migliori intenzioni vengono frustrate, irrise da sovrastrutture a cui è impossibile opporsi. E così, tra chiacchiere infinite come in ogni rom-com che si rispetti, e tra magnifiche, carnali ed eccitanti scene di sesso, Easy ha il coraggio di mettere in scena lo scacco delle buone intenzioni, la sconfitta del buon senso progressista, una sommessa tragedia umana. E, in una puntata davvero straordinaria (Side Hustle, la terza di questa seconda stagione), ragiona con entusiasmante acume su temi capitali e attualissimi (femminismo e sessualità delle donne) in perfetta sintonia culturale con altre serie contemporanee (I Love Dick, di Sarah Gubbins e Jill Soloway, dal romanzo di Chris Kraus, e One Mississippi di Tig Notaro). (Andrea Pirruccio)
Joan Crawford e Bette Davis, Jessica Lange e Susan Sarandon; Robert Aldrich e Jack Warner, Alfred Molina e Stanley Tucci: Feud è un period drama antologico ma, almeno per quel che riguarda la prima stagione, è la quintessenza dell’universo di Ryan Murphy, una manciata di puntate in cui le sue ossessioni sono tutte dispiegate e però imprevedibilmente controllate: da un lato la “faida” tra due potenze artistiche, due supernove pronte a implodere, dall’altro i contrasti e le differenze di strategia tra un regista in ascesa e un produttore vecchio stampo, avido e in declino. Ma, soprattutto, i ruoli chiave, quelli delle due protagoniste, affidati in maniera quasi sadica a Lange e Sarandon, secondo uno schema di parallelismi tra interpreti e personaggi per il quale non serve scomodare Plutarco. Gli ingredienti per sbracare ci sarebbero stati, e invece, in fondo, Murphy riesce a costruire un grande senso di pietas intorno a due stelle vere, in qualche misura travolte dalla transizione dalla Hollywood classica alla modernità degli anni ’60, impigliate nella plastificazione del proprio passato, o nell’illusione di poter risolvere tutto con l’intelligenza e, per questo, sole, umane, troppo umane. «Stars, they come and go, they come fast or slow/ They go like the last light of the sun, all in a blaze/ And all you see is glory/ Hey but it gets lonely there when there's no one here to share». (Alessandro Uccelli)
Nel 1990 ci aveva provato Volker Schlöndorff, con Harold Pinter, a trasporre il fortunato romanzo, distopico e femminista, di Margaret Atwood, ma l’impresa non era facile, e il risultato deluse qualcuno e lasciò indifferenti molti. Quasi trent’anni dopo ci ha riprovato Bruce Miller, che non è forse il più noto tra gli show runner, ma deve aver intuito che i tempi erano maturi, e che si trattava di un caso in cui è la fonte letteraria stessa a esigere uno sviluppo orizzontale nella trasposizione, partendo da un racconto in prima persona, sospeso tra un now plumbeo e asfissiante – che nella serie diviene una derivata fuori controllo dell’America di Trump, ossessionata dal ritorno ai valori tradizionali e da quella che pare l’altra fissazione globale del momento, la fertilità – e unbefore tanto rapidamente quanto irrimediabilmente perduto. La serializzazione, la rassegnazione a ripetere, trascinano lo spettatore in un microcosmo totalitario, in un medioevo prossimo venturo, con l’aiuto del viso irregolare, degli occhi sgranati di Elisabeth Moss – scelta di cast, non l’unica, impagabile. Ovviamente anche le scene, i costumi, le scelte fotografiche sono ingredienti decisivi, coprotagonisti nell’impresa: saturazione selettiva dei colori, semplificazione dei setting e delle vesti – che, nel caso delle ancelle, più che ai coloni scesi dal Mayflower sembra risalire fino a Memling, per la linea esatta e per il colore denso dei tessuti a contrasto col livore quasi disperato della carne – costruiscono un’atmosfera da crepuscolo della ragione, dove i rituali collettivi diventano, fotografati dall’alto, dei Busby Berkeley macabri. (Alessandro Uccelli)
Fincher utilizza la tv come strumento per andare alla ricerca dell’origine delle proprie ossessioni. La descrizione della nascita degli studi comportamentali come forma di indagine per i casi di omicidio – e la conseguente definizione dell’espressione serial killer – non è però soltanto una detection story (o la storia della detection story). È in senso più allargato un viaggio ai confini della serialità, intesa come impianto narrativo, messa in scena e ricostruzione. C’è innanzi tutto la riedificazione di un immaginario, quello della fine degli anni Settanta, culturalmente trascurato, quasi fuori dalla Storia (non a caso il 1977 è anche l’anno di Boogie Nights, che racconta un’altra Storia) a cui viene dato un risalto inedito. E poi la geniale intuizione di espandere il concetto di serialità. “Serial” come killer ovviamente, ma anche come racconto a episodi. Mindhunter è un meta-testo che mette insieme le indagini dell’Fbi, i film polizieschi (Quel pomeriggio di un giorno da cani), la cronaca da infotainment (gli omicidi della Manson Family) e i primordi del poliziesco tv (Le strade di San Francisco), rendendo tutto vero e tutto possibile allo stesso modo. Quasi che all’interno dello sguardo del medium per eccellenza (cioè la tv) a mancare sia proprio la mediazione fra il racconto e la realtà. (Lorenzo Rossi)
Secondo «Variety», il primo episodio della seconda stagione di Stranger Things è stato visto da 15.8 milioni di persone. Nei primi tre giorni di disponibilità su Netflix. Solo negli Stati Uniti. Di fronte a un dato così significativo viene da pensare che oltre all’effetto nostalgia, al citazionismo e all’omaggio alla cultura pop anni ’80, nella serie dei Duffer Brothers ci deve essere effettivamente dell’altro. Una possibile risposta viene da un altro dato statistico: nella lista degli episodi fornita dal sito IMDb si scopre che i voti degli utenti ai singoli episodi oscillano dall’8.4 al 9.5; ma anche che il settimo episodio ha una misera media voto di 6.2. Come è possibile? Al di là del suo effettivo valore (e dall’aleatorietà dei voti su internet…), l’episodio interrompe la linea narrativa principale della serie, quella che porta allo scontro con le creature maligne dell’upside down, focalizzandosi sui dilemmi di un solo personaggio (la ragazzina Eleven). Non propriamente ciò di cui il pubblico ha voglia quando l’apocalisse è alle porte. Senza quell’episodio la storia funzionerebbe comunque, ma è assai probabile che il finale di stagione non avrebbe una carica emotiva così elevata. È perciò da un dettaglio come questo che si capisce il segreto della serie: perché sono i ragazzini protagonisti, le loro personalità, i loro rapporti, il loro percorso di crescita, il motivo per cui altri svariati milioni di persone, non solo negli Stati Uniti e ben oltre i primi giorni di disponibilità, hanno guardato la seconda stagione di Stranger Things. (Francesco Ruzzier)
What year is this? Com’era forse prevedibile, il terzo Twin Peaks ha finito per creare qualche problema alle classifiche con le quali ci divertiamo (chi più, chi meno) a strizzare e liquidare l’anno quasi concluso. Intanto, strutturalmente “fuori concorso”, non si sa bene dove metterlo – tra i film, come hanno deciso i Cahiers? Oppure tra le serie Tv, come sembrano preferire un po’ tutti? Ma fosse solo questo. Genere “evento”, Twin Peaks 3 ha reso improvvisamente puerile l’idea stessa di stilare una classifica al termine di questo 2017: se non si sa bene dove metterlo, è anche perché dovrebbe stare in tutte le classifiche, di qualsiasi cosa. Al tempo stesso, un po’ paradossalmente, nessuna classifica dovrebbe osare inserirlo (foss’anche al vertice), implicando così che Twin Peaks possa stare assieme a qualcos’altro – che qualcosa gli somiglia. E ancora (e soprattutto): 2017? Questo Twin Peaks non è “uscito” quest’anno, ma è durato 26 anni; è sempre stato lì, anno dopo anno, e nel 2017 si è finalmente materializzato, prendendo corpo e vita in 18 puntate (poteva essere qualsiasi altra forma). Compimento provvisorio del tempo lungo e sempre aperto di un’attesa fedele e di una relazione d’amore. Di un ritorno duplice, al tempo stesso, contemporaneamente, in avanti e all’indietro, a sfidare, prima di tutto, le date e la cronologia. “What year is this?” è, non a caso, l’ultima battuta dell’agente Cooper. Nessuna risposta. Solo il grido di Laura Palmer, che nel futuro, improvvisamente, viene raggiunta dal passato. (Luca Malavasi)