Quanto è difficile, oggi, fare horror.
Perché non basta più una buona idea di base (l’horror, si sa, è il genere principe nel quale sperimentare e parlare di noi e riflettere su di noi), e neanche una messa in scena plausibile (esteticamente si può solo reindirizzare immagini già viste), quantomeno dosare o abbondare con gli spaventi: nel canone ci sono film su film che lo ricodificano e ne riscrivono la grammatica, spostano un po’ più in là l’asticella del mostrabile e alla fine giocano sulle aspettative di un pubblico sempre più scafato.
Per questo, il motivo per cui A Quiet Place sia un film interessante e anche raro è la scrittura cinematografica: l’isola che non c’è, ovvero un’idea di regia che si trasforma in storia e che non si sbriciola sotto le sue stesse ambizioni.
Krasinski, servito dallo script di Woods e Beck, lavora soprattutto sul sonoro, o meglio sulla sua assenza, facendo sì che quest’intuizione scivoli lentamente fino a diventare centrale. La situazione da survival film (il film si apre in medias res, a catastrofe già avvenuta) è forse scontata, ma il regista sfrutta la sua professione per far sì che A Quiet Place, mentre racconta gli espedienti dei protagonisti per sfuggire alla violenza omicida di mostruose creature aliene, non perda coerenza mantenendo senza forzature né compromessi una messa in scena dominata da forme di comunicazione alternative.
Ne discende che la dimensione sensoriale dentro cui si muove il film diventi straniante e porti inquietudine, ma soprattutto inserisca l’opera in un contesto di stretta attualità: A Quiet Place racconta mostrando, isola un’idea e la contestualizza (claustrofobicamente, per di più, in una cantina), liberando poi la narrazione e arrivando a una mancanza sonora così totalizzante da restituire allo spettatore una forma di partecipazione inconscia.
Inevitabile che nel film si percepiscano rimandi a Spielberg o Shyamalan, ma ciò avviene in maniera così personale e decodificata, destrutturata e poi ricostruita, da sembrare nuovo, di-mostrando che lo spettacolo è una questione di meccanismi, di matematica, professione e soprattutto pensiero. Insomma, un cinema commerciale ma deciso a non piegarsi alle logiche del consumo, bensì a reinventarsi con intelligenza, creatività e pure un po’ di furbizia.
Krasinski fa tutto questo controbilanciando con le sue ossessioni: il profondo Sud dell’America dei redneck e soprattutto l’intreccio luttuoso-famigliare, che sfugge però a una caratterizzazione psicologica tesa unicamente alla funzione narrativa e scandisce il ritmo del film in maniera sottile.
Nel 2020 la popolazione della Terra è stata decimata da una razza aliena che attacca qualsiasi cosa produca rumore. A seguito di una terribile perdita, una famiglia composta da madre, padre e due figli sopravvive in una fattoria isolata e circondata dagli esseri che sono sul pianeta; per evitare di attirare tali presenze, la famiglia vive nel più completo silenzio, comunicando solo con la lingua dei segni.