Brooklyn è un film “pantone”. Fatto di colori pieni, netti anche quando tenui, un po’ Mimosa (Pantone 14-0848), un po’ Blue Turquoise (Pantone 15-5217), un po’ Cerulean (Pantone 15-4020) ma con l’audacia di spingersi sui terreni del Tangerine Tango (Pantone 17-1463). Brooklyn racconta la storia di Eilis, che con gli occhi Aqua Sky (Pantone 14-4811) di Saoirse Ronan, parte alla conquista del mondo. O meglio di un mondo per lei. Una ragazza semplice, pulita, delicata ma anche coraggiosa e determinata. Aggettivi banali quanto può esserlo scegliere la semplicità schematica di un melodramma apparentemente tradizionale per metterlo in scena, invece, con una sottile, sussurrata, elegante complessità.
Così il film si riempie di dettagli ma non li ostenta, anzi, li retrocede per far dominare proprio il senso di semplicità, di pulizia, di delicatezza. Però i dettagli si accumulano e si strutturano costruendo la complessità del tutto, quella che dice del coraggio e della determinazione, quella che suggerisce la possibilità. A Brooklyn non manca niente, non il racconto delle tensioni, non la fatica, la fame, la disperazione del migrante: non mancano questi elementi perché, semplicemente, non volevano esserci. Non è un dramma sociale, è un melodramma nel suo senso più essenziale e prevedibile. La cura sta altrove, proprio in quei dettagli così esatti (tanto nel ritmo e nella fluidità dei dialoghi di Nick Hornby quanto nella costruzione dell’immagine) da essere disarmanti. Brooklyn è d’altronde un film sulle scelte, non sulle soprese o sugli imprevisti; un film sulle plurime possibilità della vita e su come sia possibile scegliere per se stessi. E anche un film sul colore che queste scelte danno all’esistenza.
Il colore che Eilis sceglie per la sua vita è quello dei suoi vestiti. Quando si prepara a lasciare l’Irlanda con il cuore stretto e gli occhi gonfi, compone una piccola valigia insieme alla sorella. La sorella triste per essere riuscita a darle cosi poco, qualche vestitino semplice, un maglioncino carta da zucchero, un cappottino verde di quelli cuciti addosso, a punti lunghi e dignitosi, in casa. E poi in mezzo un abito color marsala animato da uno stuolo di pois bianchi. Diverso. Quello è l’abito della nuova vita di Eilis dal momento in cui Georgina (la casuale e salvifica compagna di viaggio che si ritrova nella cabina della nave) lo sceglie per aprirle la porta del “nuovo mondo” e consentirle di farsi inghiottire dalla luce della speranza. Quello è anche l’abito che lei sceglie di indossare più avanti, per andare al ballo dove ancora non sa che conoscerà Tony che, con una camicia verde bosco e una dolcezza sconfinata, imprimerà alla sua vita una nuova definitiva svolta. Da quel momento Eilis non sarà più la stessa: non più la timida ragazza irlandese sradicata dal suo mondo ma una nuova cittadina americana, impiegata, indipendente, innamorata, consapevole.
E anche i suoi abiti cambiano. I colori che Eilis sceglie per i suoi abiti si fanno sempre più decisi, i tagli sempre più contemporanei, gli accessori osano perfino una certa frivolezza; perché la moda è l’espressione più superficiale (nel senso di superficie) del compromesso tra bisogno di appartenenza e affermazione dell’identità. E Eilis, che ora sceglie i suoi abiti senza avere più bisogno che qualcuno li scelga o li compri per lei, con i vestiti sceglie anche come comunicare la propria identità, il proprio senso di appartenenza a quel nuovo mondo, a quella nuova vita. «You look like a different person», le dice la direttrice del grande magazzino in cui lavora. Una persona diversa che indossa con disinvoltura un abito giallo mimosa per passeggiare con il suo innamorato per le vie di Brooklyn. Lo stesso abito che sceglierà per andare sulla tomba della sorella come a dirle, dopo aver rimesso la fede, della pienezza e della solarità della sua nuova vita. Ma quell’abito in Irlanda assume una strana connotazione, si colora d’estraneità. Come il costume da bagno verde e gli occhiali da sole a farfalla comprati per andare a Long Island con Tony che sotto al livido cielo irlandese la fanno sembrare un’aliena.
Eppure quello è il suo mondo, Nancy è la sua migliore amica, Jim potrebbe essere suo marito e con lui potrebbe avere una vita felice, nel suo paese, vicino a sua madre. Ma Eilis la sua vita, quella che ha scelto, ce l’ha in un altro mondo. A Brooklyn con Tony. Per questo riparte, con il cuore stretto ma gli occhi decisi, e un cappotto color ruggine che la avvolge sul ponte della nave mentre ripete alla nuova giovane impaurita migrante i consigli che furono di Georgina: «It’s just like home». Brooklyn è un film d’antan, in tutti i sensi: così profondamente anti-contemporaneo da essere quasi hip, così prevedibile e confortevole da essere quasi rivoluzionario, così nostalgico e bello, a guardarsi, da scatenare più che empatia quasi invidia.
Anni 50: la giovane Eilis lascia l’Irlanda, madre e sorella per cercare fortuna a New York. Dapprima nostalgica e insicura, Eilis si costruisce rapidamente una vita e trova l’amore; ma un ritorno a casa per il funerale della sorella sconvolge nuovamente i suoi equilibri. Da un romanzo di Colm Tóibín adattato da Nick Hornby, il John Crowley di Boy-A confeziona un melodramma elegante con protagonista Saorsie Ronan, tra le tre candidature all’Oscar ottenute dal film.