Al centro della trama di Il prigioniero coreano c’è un pescatore della Corea del Nord che finisce per andare alla deriva verso la Corea del Sud a causa della rottura del motore della sua barca. Dopo aver subito brutali interrogatori, viene rispedito a casa ma prima di lasciare la Corea del Sud, avrà modo di pensare a lungo a quella società che contrasta con l’immagine “sviluppata” del suo Paese natale.
Trattando nuovamente il contrasto tra le due Coree (già presente in The Coast Guard del 2002), Kim Ki-duk torna a quel cinema politico che aveva segnato i suoi esordi, puntando su una messinscena grezza e su una narrazione che non ammette l’utilizzo della retorica. Esplicito nel messaggio che vuole veicolare (forse anche troppo), l’autore sudcoreano riflette su differenze e similitudini tra le due nazioni (gli interrogatori sono praticamente gli stessi), mostrando il lato più oscuro di entrambe e non risparmiando critiche (anche) al proprio Paese d’origine.
Gli spunti non sono banali, anzi, e il finale può rimanere impresso al termine della visione, ma diversi sono i limiti da attribuire a una parte centrale troppo prolissa e ridondante. Resta comunque lo spessore di un’analisi sociale quasi sempre incisiva, soprattutto per quanto riguarda l’insistenza del protagonista nel non voler aprire gli occhi di fronte a un mondo che gli hanno insegnato a non poter guardare. Per Kim è un passo avanti rispetto agli ultimi lavori (pessimo il precedente Stop), ma i tempi di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (2003) sono distantissimi.
Dopo un guasto al mototre della sua barca, un pescatore della Corea del Nord (Nam Chul-woo) va alla deriva verso la Corea del Sud. Lì verrà sottoposto a pressanti interrogatori. Riuscira Nam a convincere la sicurezza sudcoreana di non essere una spia? E, soprattutto, riuscirà a convincere la Corea del Nord della propria integrità?