Benvenuti nell'abbraccio letale della politica spagnola (e non solo).
Il regno di Rodrigo Sorogoyen, già autore del serrato poliziesco Que Dios nos perdone, assomiglierebbe a una spy story se non fosse imbevuto del sangue e degli escrementi che imbrattano un'intera comunità marcescente nella quale tutti paiono coinvolti, dal politico all’imprenditore, dal faccendiere al giudice, per arrivare, in un vortice di malcostume forse eccessivamente semplicistico, al cittadino comune che intasca furtivamente il resto in più al bancone di un bar.
Il regno, che in un’ideale rassegna sul cinema spagnolo contemporaneo dovrebbe sempre essere proiettato insieme al suo gemello L’uomo dai mille volti, di un altro autore iberico emergente come Alberto Rodríguez, inizia come un racconto sulla corruzione ai vertici di un partito politico e si trasforma, progressivamente, in una soffocante riflessione sui limiti etici raggiunti dalla società moderna (non solo spagnola, visto che chiunque, a qualunque latitudine, anche senza per forza brandire a denti stretti l'apotropaico mantra “onestà”, vi si può riconoscere).
Siamo nel 2007, Manuel López-Vidal (Antonio de la Torre, uno dei volti più interessanti dell’attuale panorama spagnolo) è coinvolto in uno scandalo sulla speculazione di lotti edificabili e perde via via tutto: i legami politici con il partito, le presunte amicizie, le comode alleanze, le certezze quotidiane, la famiglia, la proterva certezza di poterla sfangare ancora una volta, come sempre e come qualunque altro suo collega.
Sorogoyen e Isabel Peña (che co-sceneggia), come si diceva, rendono il discorso universale: del partito non si cita mai il nome ma la sua presenza aleggia come un’entità di cui s'intuiscono i vincoli e si percepisce la piramide gerarchica che tutto decide, organizza e preclude quando il gioco diventa troppo scoperto e quindi suscettibile di essere rivelato pubblicamente. Un'azienda più che una formazione politica, di cui non s'illustra la linea, ma ci si limita ad alludere a giochi di potere che si manifestano attraverso l’esibizione di una fin troppo disinvolta qualità della vita e che si misurano con il numero delle amicizie su cui poter contare.
A una breve premessa illustrata come una festa perenne e scanzonata, il film fa seguire la netta frantumazione dell’equilibrio che regge i giochi, con la macchina da presa che prende a dettare i tempi di una vertigine sempre più ossessiva, come se l’intera atmosfera fosse sprofondata in una dimensione parallela votata all’incubo paranoide. In questa lunga fase, lunga quasi quanto tutta la durata del film, i due estremi dello stile, la frantumazione del montaggio e una volutamente insistita continuità, s'intersecano, rendendo vorticosa la messa in scena, alla cui ipertrofica densità contribuisce anche l’invadente commento elettronico di Olivier Arson, che pare far galoppare di ansia il movimento nello spazio di Antonio de la Torre tallonato dalla macchina da presa, alla ricerca di una via d’uscita sempre più difficile da raggiungere.
Sorogoyen ha ben chiara anche l’organizzazione dello spazio, ben consapevole di dover raccontare una vicenda in cui la dimensione pubblica collide necessariamente con quella privata e che ciò che accade davanti agli occhi di tutti non è altro che una commedia profana in cui ognuno mostra più facce, talvolta insistentemente rifrante negli specchi che compaiono per raddoppiare corpi e volti, oppure riprese da video e registrazioni audio utilizzati in un secondo momento per scopi differenti. Sulla base di questa precisa dicotomia, tramite una dialettica costante tra superficie e suo sfondo, ai luoghi aperti che manifestano l’arroganza del potere si oppongono, infatti, gli spazi intimi, lontani da sguardi indiscreti, in cui si tessono le trame (la toilette del ristorante in cui il capo del partito, come un antico signore feudale, promette a Manuel la successione), si ordiscono le trappole (il balcone dell’ufficio madrileno di Cabrera) o si implora aiuto quando il cerchio si sta stringendo inesorabilmente (i corridoi alle spalle di un palco da cui s’intravede solo un folto pubblico in attesa di un’occasione istituzionale).
Il film, infine, fa germinare anche un paio di dilemmi morali, uno più evidente, relativo al significato dell'opera; l'altro strisciante, causato dai meccanismi narrativi. Se è in effetti palese l'ambivalenza circa il concetto di responsabilità individuale in un sistema-Stato che ha smarrito completamente il senso dell'etica, facendo addirittura assurgere l'inganno a normale prassi di relazione, più sfumato ma non meno inquietante è il significato sotteso, assecondato dalle modalità di costruzione del racconto. Seguire la caduta repentina di Manuel López-Vidal, vivere la lotta contro la sua progressiva emarginazione politica e sociale, compiere con lui (letteralmente, dato lo stile adottato) i tortuosi passi di un'autodifesa disperata per rivelare il verminaio che rischia di travolgere un'intera nazione, conduce il pubblico a un'identificazione irrazionale, legittimata dallo statuto della narrazione ma eticamente deprecabile, perché rivolta alla salvezza di un personaggio comunque colpevole, benché in ottima compagnia.
Lo sguardo in macchina della giornalista televisiva che chiude il film sfiora la paralisi retorica ma in realtà serve a ristabilire la misura di questa rischiosa ambiguità, rivolgendo a López-Vidal un severo monito al suo operato e inchiodando contemporaneamente lo spettatore alle proprie eventuali responsabilità, in questo collettivo decadimento morale in cui evangelicamente nessuno può reputarsi davvero innocente.
Manuel López-Vidal, un influente vicesegretario regionale prossimo al salto verso la politica nazionale, vede la sua vita perfetta andare in pezzi in seguito alle notizie trapelate circa il suo coinvolgimento in un giro di corruzione. Mentre i media cominciano a delineare l’entità dello scandalo, il partito gli volta le spalle. Manuel è espulso dal «regno» e, bersaglio dell’opinione pubblica, viene tradito da chi, sino a qualche ora prima, gli era stato amico.