A questo giro sembrerebbe avercela fatta, Terry Gilliam.
Il gigante con cui ha lottato per quasi 25 anni, la ruota di mulino che l’ha innalzato e rovesciato, che si è arrestata ed è ripartita a più riprese, dopo aver rischiato di arenarsi di nuovo per delle beghe legali tanto strombazzate quanto indecifrabili nel dettaglio per i profani (che hanno comunque fatto scomparire il nome di Paolo Branco da tutti i credits), è approdato sugli schermi della Croisette.
Ne è uscito un film che, da subito, ha qualcosa di estremamente inattuale, nel taglio, nelle riprese, nelle location, in bilico tra l’assoluto immaginario brancaleonesco e la cartolina da film Commission locale (che strano effetto fa la Spagna ai registi stranieri, negli ultimi tempi…). Un’inattualità che solo a tratti rievoca quel poco di girato con Jean Rochefort e Johnny Depp che si era visto in Lost in La Mancha; un’inattualità che, però, in effetti, è connaturata all’essenza del Quixote di Miguel de Cervantes, l’idealista inattuale per eccellenza, che ha sempre affascinato Gilliam per quell’aspetto di battagliero comico che in fondo si ritrova in molti dei suoi personaggi precedenti.
A Gilliam interessa la megalomania del visionario, quella fuga davanti alla realtà che Michel Foucault descriveva, nel 1961, nella sua Storia della follia, prendendo proprio ad esempio il caso del personaggio di Cervantes, peraltro sottolineando la dualità tra la follia del singolo e la follia carnascialesca, puntualmente presenti in Gilliam, come d’altronde sarebbero dovute essere nell’altro Quixote maledetto, quello cominciato da Orson Welles nel 1957 e mai terminato.
All’autore di Brazil, però, interessa anche, in ugual misura, indagare il rapporto tra autore e personaggio, tra creatore e creatura. In Lost in La Mancha Gilliam a un certo punto indossava una maglia con scritto a caratteri vistosissimi “Fellini”, forse riconoscendo una parentela, fatte le debite proporzioni, con l’idea di costruzione e trasfigurazione di un immaginario dalla connotazione inconfondibile, come quello del maestro italiano; e forse c’era, in quel gesto, un pizzico di megalomania. Sempre nel documentario del 2002, Gabriella Pescucci, che è solo una delle tante professioniste di assoluto rilievo perse per strada (e si vede) nel reboot continuo del progetto, diceva del regista «bisogna tagliargli le idee»: che è un po’ quel che di fatto è successo.
Gilliam, pur non ammettendolo, è evidentemente costretto ad accontentarsi, in L'uomo che uccide Don Chisciotte, di una visione amputata, ridotta, dove solo a tratti sembra riemergere qua e là il guizzo visionario che gli riconosciamo, che non può essere surrogato dall’apparizione della gigantografia di un Goya in un carrozzone da circo, o da quella della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello pantografata al formato dell’affresco nelle stanze di un palazzo, o, qua e là, qualche ricordo delle incisioni di Gustave Doré (Doré e la megalomania, un filo rosso che connette direttamente all’ultimo Lars Von Trier…). Abbiamo amato, forse anche troppo, il Gilliam che creava un immaginario coerente: quello febbricitante e distopico di Brazil, quello drogato e distorto dai grandangolari spinti di Paura e delirio a Las Vegas, quello futuribile e malato de L’esercito delle dodici scimmie.
E d’altronde, sempre da Lost in La Mancha, si ricavavano le tracce di un universo crossover tra contemporaneità e siglo de oro, fatto di effetti artigianali e di macchinerie, maschere goyesche e atmosfere surrealiste, burattini a grandezza naturale e anatomie giganti, costumi e parrucche barocche, che invano cercheremo in L'uomo che uccide Don Chisciotte.
Qui, durante un meeting di produzione, Toby (Adam Driver), il giovane enfant prodige americano che si ostina a voler completare on location il proprio secondo film tratto da Cervantes, si sente dire: «Perché venire a girare qui in Spagna, quando ormai puoi fare tutto in CGI?». L'uomo che uccide Don Chisciotte vorrebbe essere, e in parte è, in effetti, un gioco di continua mise en abyme – tra vita personale dell’autore, del suo alter ego, del loro personaggio, che loro non è –, barocchissimo, a ben guardare, e spagnolissimo, a pensare a Velazquez (come aveva progettato la Pescucci).
È un gioco dove la parte di Quixote, tramontata la possibilità di coinvolgere Jean Rochefort, essendo venuto a mancare John Hurt, è affidata a Jonathan Pryce, sodale di una vita. Un gioco di identificazione, soprattutto, affidato al corpo e alla voce di Driver, interprete molto diverso da Johnny Depp, eppure, per la struttura fisica e il registro stralunato, più che alter-ego del regista, quasi un doppio naturale, in potenza, del famigerato hidalgo, vittima dell’impossibilità di liberarsi dall’ossessione, di uccidere davvero, come da titolo, Don Quixote.
Un gioco ingrippato dal fatto che i costi del cinema, e la libertà creativa, anche se si abbandona la pellicola per il digitale, non sono più quelli degli anni d’oro di Fellini. Un gioco che in troppi punti si incaglia e, proprio per la semplicità del digitale, funziona, anche dal punto di vista meramente spettacolare, male.
Male, ma non malissimo.
Toby, un giovane regista pubblicitario cinico e disilluso, si ritrova intrappolato dalle folle illusioni di un vecchio calzolaio convinto di essere il leggendario Don Chisciotte. Imbarcatosi in una folle avventura sempre più surreale, Toby è costretto a confrontarsi con le tragiche conseguenze di un film che ha realizzato quando era ancora un giovane idealista: quel film da studente, adattato da Cervantes, ha cambiato per sempre i sogni e le speranze di un piccolissimo villaggio spagnolo. Saprà Toby riscattarsi e ritrovare un po di umanità? Riuscirà Don Chisciotte a sopravvivere alla propria follia? O sarà l'amore a trionfare su tutto?