In apertura, la ripresa in campo lungo della spiaggia di Coney Island, con la ruota panoramica e le insegne colorate dei negozi, la folla di bagnanti e gli ombrelloni, è identica alla prima inquadratura di Lo specchio della vita di Sirk.
Solo più fasulla, un tromp l’oeil da era digitale: così sgargiante e artificioso da assumere quasi un rilievo. Sirk, dopotutto, su quella spiaggia faceva cominciare il viaggio alla conquista del sogno americano della sua protagonista, un’aspirante attrice con una figlia e senza marito, che proprio in una giornata di mare avrebbe incontrato la donna che l’avrebbe poi accompagnata nel corso della vita: una domestica di colore, anche lei con una figlia a carico, insieme alla quale avrebbe formato una strana famiglia di quattro donne.
Che Allen e Storaro, alla seconda collaborazione dopo Cafe Society, giochino a ricreare le tonalità e lo spirito dei mélo di Sirk, illuminati dalla fotografia di Russel Metty, non è di per sé un valore aggiunto di La ruota delle meraviglie: ciò che colpisce, proprio come in quei film magnificamente colorati e pomposi, sono la progressiva costruzione di una rete di relazioni che tessono la tela di ragno del melodramma hollywoodiano e la messinscena in cui l’illuminazione accompagna l’evoluzione dei personaggi e ne suggerisce gli stati d’animo.
Anche in La ruota delle meraviglie ci sono quattro personaggi che intrecciano e confondo i rispettivi ruoli, costruendo le rispettive gabbie che li imprigionano: Ginny, ex attrice di teatro fallita, madre di un ragazzino problematico e sposata in seconde nozze con un uomo che non ama; Humpty, il marito di Ginny, vedovo ed ex alcolizzato, riciclatosi come giostraio; Carolina, la figlia di primo letto di Humpty, giovane e bellissima, fuggita dal marito gangster e riappacificatasi col padre; e Mickey, aspirante drammaturgo che per mantenersi d’estate fa il bagnino a Coney Island, e che in quanto artista e narratore dovrebbe restar fuori dalla storia e invece finisce per esserne il motore scatenante, andando prima a letto con Ginny e poi innamorandosi di Carolina, scatenando la gelosia dell’ex amante. A lato c’è un quinto personaggio, Richie, il figlio di Ginny, che nella vita ha due soli interessi: il cinema e il fuoco.
Sono gli stessi anni ’50 di Sirk, la Coney Island del nostro immaginario è pop e brulicante di vita, ma sotto la superficie caramellata, mentre un mondo intero sta entrando in crisi, con i giostrai che si mantengono a stento, tutto brucia e nessuno si salva, né i ragazzini né gli artisti (che ai tempi di Crimini e misfatti un modo per sopravvivere ancora lo trovavano...). Il pestifero Richie dà fuoco a ogni cosa che incontra (manca solo che provi a vedere come brucia la pellicola dei suoi film tanto amati…) e nessuno, Allen per primo, sa spiegarne il motivo.
Richie è il particolare che sfugge, l'elemento decentrato che scompagina la geomatrica precisione degli apologhi morali (e spesso anche delle singole inquadrature) del cinema di Allen. Il centro della scena è invece tutto della disperata Ginny, che come la protagonista di Blue Jasmine scivola nel sogno della finzione, e dunque nella follia. Là il modello era Norma Desmond di Viale del tramonto, qui, forse, Blanche di Un tram che si chiama desiderio per il delirio egotico o Mildred Pierce per la freddezza della vendetta. E chissà che la struttura stessa del film non rievochi quella del testo più famoso di un autore citato esplicitamente, Eugene O’Neill, il cui Il lutto si addice a Elettra era scandito in tre momenti che si scorgono anche in La ruota delle meraviglie: Ritorno, L'agguato e L'incubo. In uno scambio mutevole di ruoli e umori, Ginny si comporta come i gangster che braccano Carolina, si ubriaca come il marito, vive di arte come l’amante drammaturgo; i vestiti di scena che sceglie di indossare nel finale la definiscono e la imprigionano in un ruolo e in una fantasia. E la luce, che domina su tutto, accompagna e condiziona la sua trasformazione.
Il lavoro questa volta straordinario di Storaro non è semplicemente espressionista, come i contrasti in bianco e nero di Ombre e nebbia. E nemmeno la riproposizione della luce fiammeggiante del melodramma classico, dove il rosso fuoco conviveva con il blu elettrico. Negli esterni di La ruota delle meraviglie la luce si fa anche cupa, grigia e bluastra, umorale come il tempo atmosferico. La pioggia, il sole, il chiarore del boardwalk fanno da contraltare alla chiusura soffocante della casa-palcoscenico di Ginny e Humpty; a volte luce naturale e luce artificiale si danno il cambio in maniera plateale, rivelando in primi piani di semplicità classica la verità sui singoli personaggi, per alcuni la malvagità, per altri l’illusione.
Il consueto pessimismo di Allen, con l’immancabile personaggio che sceglie il male perché incapace di affrontare le conseguenze del fallimento e dell’errore, in La ruota delle meraviglie non dà vita a un quesito filosofico razionale, non salva o non condanna alcunché. È piuttosto una condizione comune, un umore che trasforma la scena e travolge i personaggi. Nella geometria spesso elementare di Allen, per una volta qualcosa sfugge alla razionalità del caso: chi sparisce non torna, chi è malato continua a bruciare, illuminando con la luce di fiamme vere o fasulle una porzione troppo piccola di spiaggia ormai deserta.
Tra fragili speranze e nuovi sogni, le vite di quattro personaggi si intrecciano nel frenetico mondo del parco divertimenti: Ginny, ex attrice malinconica ed emotivamente instabile che lavora come cameriera; Humpty, il rozzo marito di Ginny, manovratore di giostre; Mickey, un bagnino di bell’aspetto che sogna di diventare scrittore; Carolina, la figlia che Humpty non ha visto per molto tempo e che ora è costretta a nascondersi nell’appartamento del padre per sfuggire ad alcuni gangster.