In Pericle il nero ci sono due scene che evidenziano una scelta di sguardo. La prima volta che vediamo Pericle bere dalla bottiglietta acqua e pasticche, Mordini si sofferma su di lui – frontale, netto, pulito – un po’ più del dovuto, qualche secondo di troppo rispetto alla norma. Quando poi, in fuga col furgone dal pestaggio dei due sbirri francesi, di notte, Pericle rallenta e si ferma, prima di fare inversione, c’è un lento movimento sul cruscotto, dall’alto verso il basso e poi verso l’alto ancora.
Sono segni di una decisione di guardare più a lungo del consueto. In un cinema italiano dove la regia è presente anche in quelli che non ce l’hanno, e lo stile è una conquista spesso irrealizzabile, e dove la messa in scena è talvolta sintomo più di un caos che di un vero pensiero, mi sembra che questi due brevi accenni rappresentino un’idea, cifre di una preferenza, di una volontà gestuale. Alla larga dalle prevedibili cassandre di genere, Pericle il nero cerca prima di tutto una forma di racconto. E lo fa per abbozzi, tentativi, tracce di un’inclinazione allo sguardo meno ovvio.
Semplice – e non sbagliato - metterle in proporzione con il personaggio, che sembra inventato da Manchette e agire in una Calais che ricorda la Saint-Jean-de-Monts di Notte sulla città: tuttavia mi piace pensare possano essere manifestazioni di un tentativo di lavorare sulla grammatica, per virgole, parentesi e puntini di sospensione. Una grammatica che spesso si dà per scontata, e che invece Mordini (facendo di più e meglio di Cupellini, ad esempio) rintraccia di nuovo, fa sua, sceglie di sottolineare. È una bella cosa, quando nella stragrande maggioranza dei casi non c’è mai un segnale, mai un attacco brusco, una pausa sorprendente, un punto improvviso.
La violenza e la solitudine di Pericle il nero le vedo nel coraggio di un’interpunzione, violenta perché inattesa, sola perché luminosa in un contesto di dinamiche e di ambienti sufficientemente e convenientemente già annunciato. Allora è più singolare e di valore quella manciata di secondi in più sull’abbraccio fra Pericle e Anastasia a letto, dopo l’amplesso, di tutta la scena accompagnata da Nina Simone: perché esprimono appunto un’idea e una scelta.
Certo, sarebbe ingiusto tacere della straordinaria sintesi della fuga dalla casa del tunisino (che pare aprirsi all’azione e che invece si chiude subito), o del pianto grottesco sulla spiaggia (che rischia grosso e colpisce per commozione), o del confronto a tavolino con Signorinella (grande personaggio, e grande momento di rivelazione identitaria che ha il magnetismo del miglior cinema diabolico), o dell’anticlimax (che termina su un sorriso, ed è inaudito), o ancora di certi primi piani quasi deformanti a cui si affida Scamarcio con invidiabile coraggio.
Eppure di Pericle il nero è la scelta dei vocaboli a convincere, più del vocabolario. Perché da soli costruiscono un sentire e un vedere che appartengono naturalmente al film ma attraverso i quali giunge di riflesso la sensazione che altrove nel cinema di casa nostra raramente si pensi alla lingua quale strumento per interrompere, ripetere, recedere, trattenersi, tornare indietro, e non soltanto parlare. C’è chi della espressione grammaticale come scelta in prima persona ha fatto ormai uno stile (Bellocchio, Gaudino), ma non è facile. Però forse è l’unica strada per evitare l’abitudine e la tradizione, le regie buone per tutte le stagioni e gli autorialismi incongrui.
Cercare la punteggiatura e scegliere una parola è anche un atto di umiltà, perché significa provare a inventare, e non adeguarsi all’andazzo. Mi pare che con Pericle il nero Stefano Mordini faccia questo, al di là del genere e evitando banali lusinghe di poetica: guarda di più, usa più tempo, usa un dire diverso dal solito. Una firma? Per ora interrompiamoci anche noi, decisi, con un punto e a capo, e fermiamoci al film.
Pericle Scalzone vive in Belgio e lavora per un boss della camorra nepoletano, trapiantato nella comunità locale di italiani. Il lavoro di Pericle consiste nel "fare il culo alla gente". Durante una spedizione punitiva per conto del boss, Pericle perde il controllo di sé e compie un errore. Condannato a morte dalla camorra, fugge e si ritira a Calais, in Francia. Qui incontra un donna, che prima lo rifiuta e poi lo accoglie in casa. Per Pericle potrebbe essere l'inizio di una nuova vita, ma il passato lo richiama indietro con i suoi interrogativi irrisolti.