Il film gemello di L’uomo nell’ombra, che Roman Polanski aveva tratto nel 2010 dal romanzo di Thomas Harris, dove si mescolavano le vite, le fisionomie, le finzioni, gli amori e gli inganni di un premier britannico molto simile a Tony Blair e dello scrittore da lui ingaggiato per scrivere la sua biografia. Ma al femminile: una scrittrice di successo, molto amata dalle donne e che racconta storie di donne (compresa quella tragica di sua madre) e una sua ammiratrice, molto determinata e intrigante, che di mestiere fa, appunto, la ghostwriter, l'autrice nascosta delle "autobiografie" di celebrità varie.
Quindi, Quello che non so di lei diventa anche il film, se non gemello, comunque analogo a Sils Maria e a Personal Shopper di Olivier Assayas, che infatti firma la sceneggiatura insieme al regista. Due donne che si specchiano l'una nell'altra, che si affascinano vicendevolmente ma si scrutano con cautela, che si "prendono le misure" e si usano, senza troppi scrupoli (nessuna delle due). D'altra parte, uno scrittore (come un regista) non può non essere un po' "vampiro"; e per di più Delphine (Emmanuelle Seigner, la scrittrice) è in crisi creativa e anche un po' colpevolizzata dall'uso che ha fatto delle sue vicende familiari, mentre El, diminutivo di Elizabeth (Eva Green), è inevitabilmente frustrata dall'oscurità nella quale è costretta a lavorare.
Intorno a queste due figure, una un po' rattrappita su se stessa, nervosamente disponibile a lasciarsi adulare e alla ricerca di linfa vitale, l'altra misteriosa, insinuante e altera (finché ha i capelli neri Eva Green sembra una moderna riproduzione della regina Grimilde della Biancaneve disneyana o di uno dei personaggi che le ha cucito addosso Tim Burton), Polanski tesse un thriller psicologico tutto sussurri, intuizioni, suggestioni, sospetti, fughe indietro o in avanti.
Avvolgente, come la colonna sonora di Alexandre Desplat (che aveva già firmato le musiche di L'uomo nell'ombra e Venere in pelliccia), fatto di molti primi piani e di volti e corpi che, nonostante la differenza d'età, finiscono per somigliarsi, di sogni finalmente costruiti con il tocco surreale, alla Dalì, del sogno, di sotterranee notazioni ironiche che sottolineano il gioco dell'assurdo nel quale ci stiamo inoltrando, Quello che non so di lei è pazientemente costruito come una ragnatela, talmente ovvia all'inizio che non può non celare qualche ulteriore inganno.
Infatti, i ragni sono due, analoghi e diversi, in cerca entrambi di creazione, di affermazione di sé, di materia viva. «La gente se ne frega della finzione, delle invenzioni. La gente vuole la realtà», dice all'inizio della loro conoscenza El a Delphine (fotografando, tra l'altro, lo stato cannibalesco della cultura contemporanea): e la realtà si presenta imprevista nei panni dell'altra, da incarnare o da spolpare. Un gioco al tempo stesso ambiguo e molto scoperto, dove le apparenze non ingannano, purché si sia capaci di leggere sotto gli strati più superficiali (ed elementari) di un volto, un gesto, uno sguardo.
Classico cinema polanskiano, costruito con una semplicità e una pulizia ormai rare, al quale, a voler essere esigenti, manca solo una sequenza mozzafiato come quella delle pagine che si sfogliavano lungo il marciapiede che chiudeva L’uomo nell’ombra.
Delphine è una scrittrice di successo. Il suo ultimo romanzo, quello più personale in cui racconta la storia della sua famiglia, è diventato un best-seller mondiale. Tutti aspettano un suo nuovo romanzo, ma Delphine è paralizzata, ha un blocco creativo. Un giorno, per caso, incontra Leila, una giovane donna affascinante e misteriosa, comparsa dal nulla, eppure capace con naturalezza di entrare nella sua vita, come amica e confidente. La presenza di Leila in poco tempo diventa imprescindibile e quella che sembrava essere un’amicizia si trasforma in un rapporto morboso e ambiguo.