«The run on the bank is more exciting than an advancing army!», la corsa alla banca è più eccitante dell’avanzata di un esercito: così nel settembre 1932 la rivista “Photoplay” promuoveva il nuovo film American Madness, nel quale Frank Capra raccontava la storia di un banchiere che, di fronte al panico dei suoi risparmiatori – che appunto prendono d’assalto la banca – evita il disastro grazie alla buona reputazione di cui gode presso i suoi clienti. Realizzato negli anni immediatamente successivi alla crisi del ’29, il film utilizza con sapienza il repertorio visivo proprio di un film sull’argomento: lo spazio della banca, gli sportelli, la cassaforte, le banconote.
Oggi, a più di ottant’anni di distanza, i film che trattano temi analoghi devono fare i conti, oltre che con l’improbabilità di un banchiere che si prende a cuore la sorte dei risparmiatori, con la totale immaterialità dei flussi economici che regolano il denaro, le destinazioni della nuova ricchezza e i destini della nuova povertà. Il problema, come bene ha spiegato Fredric Jameson già negli anni Ottanta, sta innanzitutto nella rappresentabilità del tema: «Sappiamo di essere impigliati dentro queste reti globali maggiormente complesse, in quanto ovunque, nella nostra quotidianità, subiamo chiaramente i prolungamenti dello spazio collettivo. E tuttavia non abbiamo modo di pensarli, o di modellarli, magari anche in astratto, con gli occhi della nostra mente”.
La questione che affiora alla superficie di La grande scommessa riguarda appunto la rappresentazione: il cinema può ben raccontare le nuove crisi economiche, ma è obiettivamente in difficoltà quando si tratta di rappresentarle, posto che i saliscendi dell’economia agiscono come killer silenziosi – invisibili, immateriali impalpabili – i grafici sui monitor dei computer non hanno impatto drammatico né visivo, e i risparmiatori che ci rimettono le penne non hanno più nemmeno un luogo fisico da prendere d’assalto.
In un recente film di argomento analogo, Wolf of Wall Street, Scorsese aggirava l’ostacolo scegliendo la strada di una gioiosa, travolgente immoralità, dilungandosi sugli eccessi di chi cavalcava la bolla finanziaria, senza addentrarsi nella giungla terminologica e concettuale dell’economia di mercato. Più sensibile al lato cronachistico della vicenda, il regista di La grande scommessa invece incontra subito l’ostacolo di un argomento decisamente più narrabile che rappresentabile, al punto che il titolo italiano sembra fare riferimento, più che ai contenuti, al rompicapo estetico cui è chiamato a dare una risposta.
Come nella Lettera rubata di Poe, la soluzione sta davanti ai nostri occhi; nella fattispecie in tre scene (le uniche davvero memorabili) dove, nei momenti in cui il linguaggio dell’economia si fa quasi indecifrabile, il film convoca tre star mediatiche (un’attrice, una cantante e un cuoco di grande fama) della nostra epoca, le quali – interpretando se stesse e rimanendo del tutto fuori dal contesto narrativo – illuminano lo spettatore sul significato di certi termini, prima di risparire nuovamente dal racconto. Scene brechtiane allo stato puro, sul piano degli effetti e della poetica, poiché è lì, in questi tre siparietti sorprendenti e stranianti, che troviamo racchiusa la strategia del film.
Il quale appunto trascende l’economia e i suoi trabocchetti estetici in virtù dello star system, riconducendo le tragedie della finanza truffaldina al gioco degli attori di fama (per il pubblico di bocca buona) e delle interpretazioni di talento (per quello dal palato fino). Gli inganni dell’economia più spregiudicata trovano così in quelli della recitazione un alleato inatteso: contraffazione per contraffazione, in questo gioco di corrispondenze La grande scommessa occulta la propria natura di film catastrofico imploso, mancato, poiché la catastrofe è silenziosa, invisibile e quindi priva di coefficiente spettacolare. A riempire il vuoto, la pienezza del divismo.
Basato sul libro di Michael Lewis The Big Short - Il grande scoperto (The Big Short: Inside the Doomsday Machine), il racconto delle simultanee vicende dei tre gruppi di persone che, con grande anticipo rispetto ai colleghi del mondo finanziario americano, si accorsero dell'imminente crisi del mercato finanziario e, di conseguenza, del crollo dell'economia globale. L'eccentrico manager di hedge fund Michael Burry; l’investitore di Wall Street Jared Vennett e il gruppo di lavoro del trader Mark Baum; i due giovani e inesperti investitori Charlie Geller e Jamie Shipley, aiutati dall'ex banchiere Ben Rickert. Avidi e spietati, geniali e fortunati, i personaggi scommettono sul disastro economico di un'intera nazione e della sua popolazione, traendone grande profitto e sviluppando ben poco senso morale. Un racconto grottesco, folle, al limite della commedia, che mette in luce le ferite ancora aperte - e per molti versi incomprensibili - della società americana.