Il cinghiale bianco

Che strana impressione, un po’ macabra, oltre che triste, suscita il fatto che l’ultimo film, in tutti i sensi, di Claudio Caligari, Non essere cattivo, come stabilito lo scorso 28 settembre, sia il candidato italiano all’Oscar proposto per la categoria del miglior film straniero.

Siccome la scelta dell’Anica non comporta l’inserimento tra i titoli della agognata cinquina, la cui composizione sarà resa nota il prossimo 14 gennaio, ci sbrighiamo a scrivere queste poche righe nella nostra rubrica di anacronismi e malinconici paradossi. E siccome l’articolo si autodistruggerà il 14 gennaio, ci permettiamo di “essere cattivi” a trecentosessanta gradi. Sottolineando come sia impressionante la prassi italiana, non passata ma corrente, quindi tanto più imbarazzante, di aspettare che un autore muoia per poterlo considerare, promuovere, far concorrere, magari anche premiare. O, perché no, intitolargli un premio.

Da vivo un autore degno di questo nome può dare fastidio, essere poco malleabile, impresentabile. Da morto invece è più gestibile, si presta a ogni uso. Del morto si può dire tutto il bene, il vivo altresì non si accontenta di qualche necrologio, né di scuse di facciata. Il vivo che cerca di fare i film non chiede altro che di essere sostenuto e anche libero di farlo al meglio. Da morto piuttosto fa gioco. Lo fa diventare il rappresentante ufficiale dell'Italia agli Oscar: meritatamente, non c’è dubbio, ma troppo tardi. Forse, da vivo, Caligari avrebbe gradito di più vedere il suo film in giro per i festival, partecipare ai premi, affrontare la sfida del mercato. Esserci, insomma.

Non occorrono attestazioni postume o rivalutazioni a vario titolo per accorgersi di quale straordinario cineasta fosse, estremamente personale, coerente al punto da aver realizzato i suoi unici tre lungometraggi di finzione in trentasei anni, in tre decadi diverse (li ricordiamo: Amore tossico è del 1983, L’odore della notte del 1998, Non essere cattivo di quest’anno, con un decennio intermedio addirittura saltato), e che compongono davvero una trilogia consapevole, anche perché siglata dalla morte.

Purtroppo in Italia non c’è occasione più preziosa della morte per trovare, guadagnare o riguadagnare consenso. La ragione per cui insistiamo sull’argomento deriva anche dalla concomitanza con un altro film visto a Venezia quest’anno: Gli uomini di questa città io non li conosco. Vita e teatro di Franco Scaldati di Franco Maresco, ugualmente fuori concorso, fuori dalla vita, post mortem. Di Scaldati si raccontano le gesta, si accolgono testimonianze autorevoli, se ne celebra doverosamente la grandezza. Ma del defunto. Non del vivo, che magari era più ingombrante.

Ora, non è che Scaldati e Caligari - per i quali ci si commuove, si applaude, si apprezza - siano scomparsi decenni fa, secoli fa. Scaldati muore nel 2013, Caligari nel 2015. Il deserto delle disattenzioni, rigorosamente in vita, e delle attenzioni, rigorosamente a morte avvenuta, è il presente, questi anni, questi mesi. Un presente non soltanto del teatro o del cinema italiano, ma della cultura, delle sue maestranze, delle eminenze grigie, di cinquanta sfumature, e delle operose conventicole di addetti ai lavori che scelgono, selezionano, recensiscono, suggeriscono, consigliano, aiutano a far finanziare, dirigono, promuovono, escludono o bocciano questo o quell’autore, ora lo trascurano e lo ignorano, ora lo esaltano, di solito in vita, sempre con lo stesso sdegno, la stessa veemenza verace, vagamente francescana. Possibilmente quando si tratta di casi molto particolari, come questi, ex post.

Resta la domanda, semplice, scontata, indicibile: come si fa ad avere così tanti estimatori attivi, influenti, importanti e morire nel deserto, soli? Immaginiamo un racconto o un atto unico teatrale, non importa, che potrebbe essere intitolato grosso modo L’uomo che muore nel deserto. Dove il narratore, condizione preliminare perché ci sia il racconto (a cui quindi il lettore o lo spettatore non bada) descrive la condizione ingrata di quest’uomo che sta morendo, affamato, assetato, oppresso dal sole, senza un’oasi neppure in lontananza. Il racconto prosegue finché l’uomo in questione non si rivolge direttamente a questo narratore, stanandolo. Gli chiede perché invece di “narrare” la storia non si ferma un attimo per “fare” qualcosa e cioè aiutarlo concretamente. Non foss’altro perché quello che viene definito “l’uomo che muore nel deserto” intanto è vivo, non è ancora morto. Il narratore, interdetto da una simile bizzarra richiesta, che sciupa l’artificio letterario o teatrale, a seconda delle esigenze, lo osserva un attimo. Ci pensa. Poi riprende a narrare di questo grand’uomo, condannato a morire nel deserto.

Che dire ancora? Niente che non sia stato già detto, inequivocabilmente, dal regista Smamma, che si chiama così perché deve “smammare”, togliersi di mezzo prima possibile, in Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio. Dice Smamma al collega Elica, altro cognome che la dice tutta sul contesto: «Un mio amico, un ex frate che vive qua, per paura che io potessi uccidermi o fare una strage, o tutt’e due le cose!, mi fa una proposta: “Invece c’è un solo modo per vincere: morire”. Morire? “Sì, ma non devi morire realmente. Tutti devono credere che sei morto. In Italia i morti comandano. Eh, penso a tutto io. So come fare”. Io accetto con entusiasmo. E subito i necrologi parlano di ingiustizia, risarcimento. I grandi intellettuali fanno autocritica in pubblico. I professori universitari – quelli che fino a qualche giorno prima mi consideravano zero, zero, hai capito? Elica, hai capito? Zero – quei professori oggi obbligano i loro studenti a laurearsi su di me! (Portandosi le mani alla fronte) Ma poveracci, cazzo! Poveracci!».