È uno dei film più interessanti realizzati nello scorso anno, ma in Italia uscirà soltanto in dvd il 18 aprile, grazie a Universal Pictures Home Entertainment. E il rischio è che la mancata uscita su grande schermo ne confini la raffinatezza in qualche recensione estemporanea, come questa, o nell'altrettanto occasionale commento sui social o nei blog.
Sarebbe un peccato, perché Storia di un fantasma (A Ghost Story) è un film ricchissimo e molto articolato pur nella sua profonda semplicità. A dispetto dei fantasmi, non è certo un horror, quanto un romance spezzato o un mélo dalle ascendenze gotiche, a seconda delle prospettive.
Una coppia senza nome. Lui musicista, lei insoddisfatta dal luogo in cui vivono. Nonostante l'amore. Lei vuole trasferirsi, lui no. Lui muore improvvisamente a causa di un incidente stradale occorsogli davanti casa, ma il suo fantasma torna nell'abitazione e osserva silente e immobile l'elaborazione del lutto della compagna, il tentativo di questa di rifarsi una vita e il conseguente trasferimento, in un'attesa perenne e fondamentalmente inutile.
Prendendo spunto dalle sue stesse vicende personali, in una fase di contrasti con la moglie circa la possibilità di trasferirsi dal Texas a Los Angeles, David Lowery realizza una sorta di versione metafisica del suo precedente Senza santi in paradiso, utilizzando gli stessi volti (Casey Affleck e Rooney Mara), accentuando il senso di distacco incombente ed esacerbando l'attesa di una possibile quanto vana riunificazione.
Il fantasma che ritorna non ha il fascino di Warren Beatty o di Patrick Swayze, ma i tratti grotteschi e puerili di un lenzuolo calato sul corpo di Casey Affleck, così come lo indosserebbe un invitato dell'ultima ora a una festa spartana di Halloween (e per ottenere questa perfetta forma bombata e ogivale, che ricorda quella del fantasma de La città incantata di Miyazaki, Affleck ha dovuto indossare diverse sottovesti che ne hanno arrotondato la sagoma, evitando che il lenzuolo aderisse tangibilmente al corpo). Non interagisce e non protegge, il fantasma, si limita a osservare e ad aspettare. Nella fissità del suo volto s'intuisce quasi kulešovianamente la mestizia nel guardare l'amata ormai perduta; il resto lo fanno la sua staticità impotente, interna allo spazio dell'abitazione ma pressoché passiva, quasi scenografica, i movimenti talmente rallentati da apparire sospesi (ripresi a 33 fotogrammi al secondo per non scadere nel ridicolo involontario) e un lenzuolo che ingiallendo progressivamente fornisce la mestizia dell'abbandono.
Il fantasma è intrappolato nella casa che già in vita non voleva lasciare, bloccato in un'attesa eterna e in un ambito delimitato dalle proporzioni del quadro, la cui ratio è un desueto 1,33: 1, poco più di un quadratino claustrofobico cui il fantasma sfugge ponendosi a lato, in profondità o nella malinconia di un campo lungo che ne sottolinea l’infinita prostrazione e la sua relegazione sullo sfondo rispetto a qualunque vicenda esistenziale. Sul quadro, inoltre, incombe un senso di bizzarra nostalgia grazie anche all’artificio degli angoli arrotondati che hanno il sapore del filmino amatoriale, dell’home movie di un tempo ormai perduto, soprattutto se l'home è diventata una prigione dell'anima.
Perché, oltre al sapore mélo e all’evanescente ipotesi horror, A Ghost Story scolpisce il suo senso sulla densità di un tempo che da individuale si fa universale e che lega indissolubilmente tra loro struttura e svolgimento del film, tecnica utilizzata e ascendenze culturali. Lowery raggomitola lo sviluppo della narrazione, alludendo a un eterno ritorno scisso tra l'Odissea kubrickiana e Nietzsche (un'antologia del quale ha il privilegio di un piano ravvicinato insieme alle altre fonti d'ispirazione del film, tra cui Una casa infestata di Virginia Woolf, L'amore ai tempi del colera di Garcia Marquez come emblema della devota attesa sentimentale e Addio alle armi di Hemingway in qualità di esempio di frustrazione tragica).
Lowery, inoltre, perlomeno nella prima fase del film, estende smisuratamente la durata di ogni singolo piano ben oltre la leggibilità dell'inquadratura, con lo scopo di sondare la sostenibilità dell'immagine e ispessire con gusto del paradosso l'esiguità del campo a disposizione, mostrando oltretutto una sensibilità inconsueta per la tradizione americana. E allora può capitare che il senso dell'elaborazione del lutto passi attraverso i lunghissimi quattro minuti e mezzo impiegati da Rooney Mara per mangiare un'intera torta al cioccolato, seduta in terra, un cucchiaino dietro l'altro, osservata in un silenzio angosciante dal fantasma posto all'angolo della scena, come se fosse un complemento d'arredo. Tuttavia, non tutto è fissità del quadro. Dopo la partenza della ragazza, i piani si mettono in movimento, diventando fluidi e fluttuanti, sollecitati dall'agilità dell'Arri Alexa Mini, pronta a inocularsi nello spazio diventato ormai tristemente estraneo per il fantasma in costante attesa di un ritorno che non avverrà.
Così come saranno gli obiettivi a focale lunga e le conseguenti prospettive compresse a caratterizzare la sequenza en plein air dei pionieri, momento che allude alla presenza di un genius loci materializzatosi nella flebile melodia canticchiata da una delle bimbe, la stessa che si trasformerà nella canzone composta da Casey Affleck nel medesimo luogo poco prima della morte.
Rimandi, rime, parallelismi: il tempo di A Ghost Story si condensa e si decompone insistendo sulla durata, appoggiandosi a frequenze e iterazioni e ruotando intorno a una ciclicità che si placa, interrompendosi, solo al verificarsi di una piccola manifestazione d'amore rincorsa da secoli.