The Summer Book, visto Fuori Concorso nella 42ª edizione del Torino Film Festival e la cui uscita in sala in Italia è prevista per fine gennaio del prossimo anno, è un film lirico, contemplativo, crogiolato in un’osservazione indugiante che troppo spesso diventa fissità prospettica.
La storia, tratta da un romanzo di Tove Jansson, è scarna, basata com’è sulle relazioni tra pochi e talvolta, come nel caso del padre, laconici personaggi. Una bambina, suo padre e la nonna soggiornano in un’isola disabitata che si affaccia sul Golfo di Finlandia. Nonostante la serenità della stagione estiva, su di loro incombe un duplice senso di morte: quella della mamma della bambina, recentemente scomparsa, e quella prossima della nonna, che dà evidenti segni di crescente stanchezza. Le tre diverse età della vita unite dal senso di perdita del passato (la madre della bambina) e del prossimo futuro (la nonna, cui Glenn Close fornisce quell’incedere provato e sofferto che rappresenta il vero valore aggiunto del film). Su queste basi, la bambina, dall’indicativo nome, Sophia, compie il suo prevedibile percorso di educazione alla vita e agli affetti, recuperando soprattutto la relazione con il padre, smarritosi dopo il lutto subito.
Charlie McDowell, che il pubblico ha conosciuto soprattutto per due film distribuiti da Netflix, il fantascientifico sentimentale La scoperta (2017) e il thriller concentrato in un’unica grande villa Windfall (2022), gioca sul doppio registro del dramma che ha le movenze e i caratteri del kammerspiel, pur aprendosi alla suggestione degli spazi aperti, della natura incontaminata, rifacendosi direttamente, in questo, a tutta la tradizione naturalistica scandinava, non solo cinematografica. Grazie anche al lavoro davvero apprezzabile del direttore della fotografia Sturla Brandth Grøvlen (The Innocents, Un altro giro, Victoria), la natura nel film diventa infatti lo specchio fedele del rapporto tra i personaggi, della loro crescita, del superamento del trauma e della loro successiva consapevolezza nella triste imminenza della caduta. Un lavoro che rende la vicenda umana allegorica, in cui la crescita della vegetazione e l’infuriare degli elementi si prestano a un chiaro tessuto di simboli con cui leggere gli scarni avvenimenti. Questi, proprio in virtù di una significazione che passa necessariamente attraverso il rimando allo scenario, appaiono accennati, quasi prosciugati nella loro essenzialità, derivata anche dalla rarefazione del romanzo di ispirazione autobiografica della Jansson, al punto che quando la bambina prega Dio di inviare una tempesta per rompere la monotonia, l’impressione primaria è che si tratti in realtà di un tocco di involontaria ironia metadiscorsiva riferita a ciò che si sta vedendo sullo schermo.
Proprio la tempesta dovrebbe rappresentare il punto culminante della crisi, il climax della sofferenza intima il cui superamento riporta l’equilibrio per vivere il futuro su basi nuove, superando la paura della morte e riavvicinare le parti (la figlia e il padre, per mezzo della nonna), ma in realtà la regia di McDowell dà vita soltanto a un acceleratore drammatico che non sfrutta pienamente l’ipotesi tragica e si mostra quindi solo pretestuoso, gratuito nella sceneggiatura, intrappolato in una struttura preoccupata esclusivamente di avviarsi al termine secondo le regole prescritte.
Un film che punta a temi universali ma è ripiegato su una modalità narrativa (si fa per dire) troppo simbolica e dilatoria per considerarsi davvero riuscita.