L'inquietante meteora di una storia d'amore di Morando Morandini Le stelle inquiete e? un film che puo? inquietare a cominciare dal titolo di difficile interpretazione. Inquieta – o irrequieta? – e? la protagonista (e non e? la sola tra i personaggi): perche? attribuire l’inquietudine anche alle stelle cosi? remote? Nel film e? la stessa Simone Weil a dire: le stelle, bisogna sentirle. E di lei qualcuno dice che interroga le stelle e parla con le lucciole. Un’altra domanda: perche? il titolo del film e? Le stelle inquiete, mentre nella copertina del dvd diventa Le Stelle inquiete? E? una distrazione grafica o quella maiuscola e? premeditata? Un mese nella vita di Simone Weil, dice il sottoti- tolo. Qualche settimana in piu?, diciamo, nell’estate del 1941: non e? un film biografico, la profondita? prevale sull’estensione. Quasi non e? nemmeno un film in costume. Pur lasciando grande spazio ai pae- saggi di campagna nella Francia del Sud vicino ad Avignone, sulla riva sinistra del Rodano («... les paysages, il faut les aimer tous...», scrisse Alain Fourneir in una lettera del 1901 a Jacques Rivie?re), Piovano ha fatto, il quinto, un film notturno: il cielo stellato ritorna piu? volte, quasi in “leit-motiv” visivo. Anche percio?, nel rivederlo in casa, l’ho trovato misterioso e un po’ magico (ma spero in una terza visione, al cinema, anche per godere meglio il for- mato panoramico). Non e? il solo motivo conduttore di quel film inquieto che in certi momenti mi ha incantato: quel- l’immagine buia e ripetuta del bosco in cui Simone si muove come un’ombra – o un fantasma? – da un albero all’altro; le inquadrature dall’alto di frutta e verdure, vere e proprie “nature morte” luminose, che non hanno funzione narrativa: sono come frammen- ti poetici di un film sperimentale, fondato sulle atmosfere. E? piu? narrativo o almeno piu? espositivo il “leit-motiv” sonoro della fisarmonica, ora diegetico, interno al racconto, ora fuori campo, quasi astratto. E? un film in cui la musica (Marc Perrone), le canzoni, i balli, i suoni sono importanti. E? un “leit-motiv” informativo-storico quello della terraz- za sul paese con i notabili locali che dialogano tra loro e la voce del generale Pe?tain, capo dello Stato dopo il 1940 e del governo di Vichy nella Francia non occupata dalla Wehrmacht tedesca. In una nota del press-book Piovano dice: «Volevo fare un film semplice, arioso e profumato, un film luminoso per tempi bui, sul passaggio di una meteora, poiche? Simone e? stata una meteora che ha attraversato la quotidianita? di una coppia ordina- ria, trasformandola. Una storia d’amore in cui l’amore non e? attaccamento, ma illuminazione». Nel film Simone dice: «L’amore non e? indulgenza, e? un impegno». E in «La pesanteur et la grace» (in italiano «L’ombra e la grazia») – proprio il libro, il primo dei quattordici, tutti postumi, che Gustave Thibon diede da pubblicare nel 1947 alla Librairie Plon di Parigi, dopo averlo trascritto dai suoi quaderni – dice: «Credere all’esistenza di altri esseri umani in quanto tali e? amore». Ecco che cosa e? questo film: la luce e l’ombra. Quando, in un colloquio con la moglie, Thibon sentenzia: «La filosofia e? diversa dalla biologia», con sottile ironia Yvette gli replica: «Non cosi? tanto, direbbe Simone». Verso la fine la regista sottolinea l’aneddoto del “nodo che non lega”, che coinvolge la protagonista, decisa a trasferirlo in metafora ai sentimenti, agli affetti, all’amo- re. Non so quanto conti il tema del complesso e molteplice pensiero di Weil, ma quasi sicuramente e? molto caro a Piovano. Non conosco abbastanza l’opera di Simone Weil (1909-1943) per fare un confronto approfondito tra il film e una scrittrice che nell’«Enciclopedia della Filosofia» Garzanti Giuseppe Ricorda definisce «pensatrice religiosa francese». Mi sembra, pero?, che nel suo ritratto Piovano abbia messo la sordina al misticismo, all’ispirazione etico-religiosa, alla tenta- zione di convertirsi ufficialmente – lei di famiglia ebraica – al cristianesimo, tentazione cui rinuncio? per il pericolo di oppressione della vita spirituale da parte della Chiesa cattolica, troppo legata alla sua organizzazione terrena di origine romana. «Sara? cristiana dal di fuori», scrive il francese Georges Hourdin, autore di una introduzione a «L’ombra e la grazia» «quasi magnifica testimonianza dell’esisten- za di una quantita? di poveri, di umiliati, di non credenti, di eretici...». Nel film c’e? soltanto il cieco Padre Perrin che dice con un sorriso: «E? un po’ mistica, anche se fuori tempo massimo». Le Stelle inquiete e?, in fondo, un film laico, tutt’altro che semplice come vorrebbe chi l’ha diretto. Ellittico com’e?, allusivo piu? che esplicito, senza concessioni ai modi tradizionali delle biografie fil- mate, appartiene a quel cinema per “felici pochi” che richiede allo spettatore non soltanto attenzione, ma collaborazione attiva (1). Basta riflettere sul tema della morte che affiora per un momento verso il finale. Simone Weil mori? a trentaquattro anni e le circostanze biografiche confermano che si lascio? morire. Nel film dice: «Moriro?. Muoio anche adesso».
(1) Il montaggio e? firmato da Roberto Perpignani, un caro amico che stimo e ammiro da sempre, ma non ho avuto occasione di farmi raccontare di che natura fu il suo contributo. Non facile, credo.