CINEFORUM / 510
Storie del nostro mondo
Molto hanno in comune Miracolo a Le Havre e Le nevi del Kilimangiaro: non soltanto la Francia (in un’ideale andata e ritorno Le Havre-Marsiglia, che trova peraltro il suo visibile trait-d’union nel volto di Jean-Pierre Darroussin); non solo il mare come elemento visivo e di contrasto capace di modulare gli orizzonti etici dei singoli personaggi e, più in generale, quelli in cui si articolano le storie che li riguardano; ma anche – e soprattutto – il pilastro portante della responsabilità verso i deboli quale risorsa ultima in grado di definire l’idea di umanità nel suo concreto realizzarsi. Che i deboli siano in entrambi i casi bambini non è certo casuale: essi sono figure esemplari di quanto di più forte e però più indifeso ci resti a disposizione per immaginarci ancora un futuro come genere umano: la speranza. Un’illusione risibile, se non la faremo appoggiare sul terreno solido delle decisioni, dei comportamenti, dei gesti che rimandino a una scelta morale di reciprocità. Due cineasti, due autori a prima vista così distanti fra loro per quanto concerne riferimenti cinematografici e cifra stilistica dei rispettivi segni, giungono a noi contemporaneamente riuniti a un livello profondo che è pre-filmico e insieme rimanda a una sfera eccedente il dato puramente cinematografico. Kaurismäki, proseguendo nel suo percorso segnato da un ottimismo della volontà che non rinuncia mai allo strumento didattico della lateralità (auto)ironica; Guédiguian, ritornando dopo un temporaneo détour ai luoghi e alle storie che ci hanno rivelato e fatto amare il suo cinema, con un disincanto nuovo che però non significa resa, tutt’altro. E se Kaurismäki ha voluto fare proprio di Darroussin l’interprete per il personaggio-chiave, quello che permette il colpo di scena necessario al primo degli happy end del film, un motivo ci sarà: la presenza inconfondibile di questo attore afferma con forza l’opzione a favore di un cinema popolare, che non può cioè fare a meno della popolarità né di rivolgersi idealmente al pubblico più ampio. Perché certe cose o si dicono al maggior numero di persone possibile oppure non ha neppure molto senso dirle. Sia Kaurismäki che Guédiguian non sono cineasti “ingenui” né vogliono fingere di esserlo; come si diceva più sopra, le loro opere affondano le radici nella storia del cinema e si nutrono apertamente di essa, secondo le relative affinità; ma il côté cinefilo costituisce soltanto un presupposto espressivo, che nulla significherebbe per entrambi se non rimandasse alla essenziale funzione etica del discorso così prodotto. È altrettanto significativo che l’esortazione alla responsabilità venga in entrambi i film formulata in termini inequivocabilmente laici. Il pensiero morale che le due storie distillano è quintessenzialmente umano; ha piedi ben appoggiati sulla terra e gli occhi non guardano al di sopra delle nuvole ma si rivolgono senza esitazione ad altezza d’uomo, all’esistenza delle persone che devono fare i conti con i limiti e gli ostacoli quotidiani alla loro realizzazione senza pretese. Si tratti di migranti, di ragazzini in balìa di un mondo senza pietà, di lustrascarpe, di ex sindacalisti in prepensionamento, di giovani delinquenti figli della forzata disoccupazione. In questo quadro il bene non lo si compie per adempiere a un dovere dalle origini ultraterrene ma perché è l’unico (l’ultimo) modo per sentirsi davvero parte di una comunità terrena degna di questo nome. D’altra parte, pare sia stata recentemente scoperta l’origine genetica dell’altruismo come fattore relazionale tra gli individui e della conseguente caratteristica disfunzionale del comportamento egoistico: si aprono prospettive interessanti al dibattito etico prossimo venturo. E di questi tempi ce ne sarà un gran bisogno.