Intanto, i film di Haneke partono sempre da storie realmente accadute. Per quanto i suoi racconti possano apparire artificiosi e improbabili nell’estremo rigore della rappresentazione, un registro narrativo gelido fino all’astrazione, Haneke è un osservatore attento della realtà e ha sempre preso spunto per i suoi film da episodi di cronaca, momenti storici o eventi di vita vissuti in prima persona. Come quando, rifacendosi a un articolo di giornale, scrisse la sceneggiatura di Der Mann mit der Gasmaske (L’uomo con la maschera antigas) e la propose a una rete radiotelevisiva tedesca. Mentre, seduto con il produttore in un bar di Berlino, Haneke incassava il rifiuto di acquistare il copione motivato da una non plausibilità del soggetto, all’improvviso si apre la porta e a sorpresa si affaccia un tizio con la maschera antigas (1). Spesso il regista austriaco, nel tentativo di ritrarre una realtà paradigmatica, anticipa e supera l’enfasi dell’immaginazione. Per Amour, il settantenne Haneke ha dichiarato che quando si raggiunge una certa età è inevitabile fare i conti con la sofferenza delle persone amate o dei loro prossimi, e ha tradotto in immagini la propria esperienza personale su eventi non facili da assorbire, cercando di esorcizzarli nell’unico modo in cui ha sempre fatto, ovvero attraverso il cinema.
La famiglia e la coppia sono i contesti che gli garantiscono a colpo sicuro un alto tasso di identificazione perché fanno parte delle esperienze comuni alla quasi totalità delle persone. In Amour il centro del racconto è appunto la coppia interpretata dai due magnifichi attori Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant. Sono due persone che stanno percorrendo insieme l’ultima fase della loro vita, ma Georges e Anne sono anche i nomi paradigmatici per eccellenza della filmografia del regista che, nella variante tedesca di Georg e Anne o in versione francese, ce li ripropone tutte le volte in cui il nucleo coniugale è al centro del film (Der siebente Kontinent [Il settimo continente]; Funny Games 1 e 2; Niente da nascondere; Il tempo dei lupi). Ma questa volta, affinché l’attenzione dello spettatore si concentri esclusivamente sui due personaggi protagonisti, Haneke li isola dentro il loro appartamento, giustificando questa sorta di prigionia volontaria con la difficoltà di movimento sopraggiunta per gli acciacchi dell’età e della malattia di Anne. Cosa che gli dà anche modo di ricostruire la scenografia in studio, secondo le sue abitudini forse derivate dalle sue origini teatrali, prendendo a modello il vecchio appartamento dei suoi genitori (3).
Il dolore, l’impotenza, l’umiliazione fisica. Haneke non ci risparmia niente di questo toccante tragitto amoroso, ma è proprio la freddezza asettica della rappresentazione visiva a costituire, ancora una volta, la chiave di volta della sua messa in scena. Ed è proprio così che riesce a innalzare il film in un più alto volo, evitando ogni concessione al patetismo compassionevole e melenso. Non possiamo che apprezzare la fissità di una camera che sa anche restare sufficientemente lontana, l’uso reiterato del fuoricampo visivo e sonoro, la profondità di campo capace di allungare lo spazio ristretto delle mura restituendo allo spettatore la scelta dello sguardo. Haneke, che anche nelle interviste si sottrae sempre alle domande che vogliono spiegare tutto, predilige suggerire più che esibire, scandendo il ritmo del racconto con le cadenzate richieste di aiuto di Anne che, ormai persa in un mondo tutto suo, chiama per ore la mamma come una bambina indifesa, di fronte alla quale Georges non può fare altro che accarezzare dolcemente la mano. O anche la necessaria incombenza dei gesti quotidiani che Anne progressivamente non riesce più a fare e di cui Georges si fa carico con tenerezza, come lavarle i capelli col pentolino d’acqua calda mentre lei si tiene l’asciugamano sul viso.
Amour non è un film sulla vecchiaia, sul disfacimento del corpo, sull’eutanasia. Haneke lo ribadisce con fermezza. Si tratta invece della difficoltà di gestire la sofferenza della persona che più si ama al mondo. Essere impotente. Una delle scene più struggenti di Amour è quando Georges aiuta Anne a sollevarsi dal sanitario del bagno e l’accompagna in camera, tenendola abbracciata. Lei ancora cammina un po’ e si appoggia su di lui che, arretrando un passo alla volta, sostiene la barcollante deambulazione di lei in avanti. La fatica dello stare in piedi, del mantenersi uniti nonostante tutto il loro mondo si stia sgretolando, è interamente rappresentata in questa passeggiata attraverso il corridoio della coppia avvinghiata. Un abbraccio d’amore e di indispensabile sostegno, rimarcato da una lunghissima inquadratura in cui i due coniugi sembrano non raggiungere mai il traguardo. Ritmata dal rumore lento dei piedi strascicati sul pavimento, è la rappresentazione di una macabra danza senza più musica.
(1) Alexander Horwarth, Giovanni Spagnoletti (a cura di), Michael Haneke, Lindau/Torino Film Festival, Torino 1998.
(3) Michel Cietaut, Philippe Rouyer (a cura di), Entretien avec Michael Haneke, «Positif» n. 620, ottobre 2012: «Infatti, questo appartamento ricostruito in studio è quello dei miei genitori, con la piccola stanza a lato della cucina, dove si era rifugiato il mio patrigno dopo la morte di mia madre, come fa Trintignant alla fine del film. I miei genitori possedevano quella stessa biblioteca, delle sedie identiche e un pianoforte».