A The Master, «Cineforum» ha deciso di dedicare pole position e ampio numero di pagine. Siamo infatti convinti che il film di Paul Thomas Anderson sia uno dei risultati più alti della stagione: un film, come scrive Fabrizio Tassi, «che ti lascia a una distanza siderale e poi si insinua sottopelle, inquietante». Perché ci parla – e solo apparentemente “a freddo” – sia di questioni centrali nel pensiero filosofico alla base della riflessione sul nostro tempo, sia di linee di sviluppo (e di impotenza, se si vuole) rilevabili nelle tendenze più attuali della drammaturgia. Una ricognizione disturbante, ambigua, dolorosa nei territori dove i nervi della sofferenza individuale e della rassicurazione/sottomissione collettiva sono più scoperti.
Particolarmente indicativo ci sembra poi il binomio costituito da La regola del silenzio e Terramatta. Per quanto incongruo possa apparire l’accostamento (condizioni produttive e distributive, budget, caratteristiche generali e finalità dei due progetti: fattori che ne conclamano la differenza incolmabile), resta comunque indiscutibile il fatto che entrambi i film si misurano con la Storia – quella con la S maiuscola – attraverso il punto di vista di persone che rispetto a essa hanno occupato una posizione da outsider. La finzione del film di Redford si misura con un pezzo di storia americana poco conosciuto e sostanzialmente rimosso negli ultimi decenni. Ne mette in scena i protagonisti che avevano scelto, dopo il fallimento, di oscurarsi: finché un evento imprevedibile li costringe a fare i conti prima di tutto con se stessi. La ricostruzione di Costanza Quatriglio ripercorre invece decenni di storia del nostro Paese partendo da un testo sorprendente, scritto da una persona appartenuta a un contesto sociale tutt’altro che “conosciuto” (di sicuro, se di conoscenza si vuole parlare, si tratta di una conoscenza delegata a narratori esterni, non a una voce interna e dirompente come quella di Vincenzo Rabito) e in fondo rimosso dalla cultura ufficiale. Una cosa sono le analisi socio-storiche che mettono gli individui, gli ambienti e le attività sul tavolo anatomico dei ricercatori; ben diverso è farne emergere il mai-detto attraverso il discorso autonomo e non sottoposto a censure, di qualcuno che finalmente ha scelto la parola invece del silenzio.
Un numero in cui si vede, più che in altri, come il cinema sappia mettere energie e pensiero in grado – con tutte le contraddizioni prodotte dal suo statuto di arte industriale – di riflettere sul proprio discorso, sui suoi limiti, ma anche di rilanciarlo attraverso le vie più differenti, salvando ciò che ne ha sempre fatto un infallibile dispositivo di mitologie: la narrazione.