CINEFORUM / 526

La corsa di Jep attraverso i campi

di Pier Maria Bocchi

Eccolo, il vero senso dell’ondivaga stasi di Jep. Questo film di Paolo Sorrentino non è un film sulla volgarità, e neanche sulla modernità; è piuttosto un film che cerca la bellezza e non la trova perché le siamo inadeguati. Jep è insoddisfatto quanto Adriana quasi cinquant’anni fa: con tutto il suo domandare guardare vagabondare ipotizzare sentenziare (cioè la versione intellettualistico-snob di ogni cambio di pettinatura e di abito di Adriana, di ogni disco da lei suonato e ballato), egli non riesce mai a raggiungere quel senso supremo di armonia che dovrebbe muovere vita e parole di lui e del mondo. La bellezza è talmente grande che non la si vede, come la giraffa che un momento c’è, e il momento dopo non c’è più. Un trucco? Forse no, se mettiamo in conto che Jep non può aver successo (nella sua missione di ricerca). Apriamo gli occhi, ben più dell’udito, e non vediamo niente. O almeno non vediamo niente che ci soddisfi. La bellezza non è nella fede e non è nella quotidianità spartana di un bicchiere di vino in cucina; la bellezza non è neanche nei monumenti e nei panorami, e ciò è ancora più sconvolgente e inaccettabile, specialmente per chi voglia chiedere al film soltanto una mappa del valore storico-architettonico (romano) rapportato al qualunquismo e alle ciance (romani). Se davvero la bellezza risiede soltanto nel ricordo della bellezza, non siamo messi tanto bene. Jep giunge alla fine del suo tragitto – senza meta, senza regole, senza tracciato – con la convinzione che la vera, grande bellezza sia quella del suo primo amore, in gioventù. Il che equivale ad ammettere una sconfitta. Non c’è bellezza che non sia sempreverde ma già morta e sepolta. Viva nel cuore, ma sottoterra: Jep prende atto della sua bellezza, grande, grandissima, che ha amato e che ha idealizzato senza identificarla fino alla fine, quando è troppo tardi, cioè quando essa non c’è più. Non c’era niente che riuscisse ad accontentare Adriana, al di là di qualche fugace felicità momentanea (e senza nome); a Jep non va meglio, sebbene l’inaccessibilità della bellezza nella realtà sia in qualche modo risarcita dal ritrovamento inaspettato di una memoria personale accecante e appagante. Ma doversi rifugiare nel ricordo non è una vittoria. Adriana si rifugiava nei 45 giri e in una nuova acconciatura: tutto sommato, non c’è molta differenza fra un taglio di capelli à la page e una luce del passato.
Accumulare allora significa riconoscere. E capire. Ed è ciò che fa Jep: parla, guarda, ascolta, ritrova, ricorda; e poi accumula, riconoscendo uno scacco ma senza uniformarsi, anche perché egli stesso è già uniformato, fa parte della massa, che critica ma che non disdegna, che biasima ma della quale non può fare a meno. Il pubblico è chiamato a identificarsi con lui, personaggio sgradevole e non “pulito”, ma soprattutto è chiamato a passeggiare al suo fianco, pranzare a tavola con i cardinali e con le sante, sedersi in terrazza per serate annoiate, aprire porte inapribili, spalancare finestre chiuse, osservare la deriva. Tutto ciò non fa che aumentare la consapevolezza dell’abisso che divide l’uomo (il cittadino) e la (grande) bellezza, irraggiungibile perché persa in un oceano di orrore, irraggiungibile anche quando presente e visibile in tutto il suo splendore scultoreo eppure morta come le chiacchiere in divano, morta e senza sangue. Le grandi bellezze di Roma capitale sono i pesanti confronti a cui è difficile rispondere: denotano un appassimento, uno stato delle cose sfiorito, e lasciano rimpicciolire anche le persone più perspicaci. Jep si rimpicciolisce e si ritrae, dentro di sé e dentro il mondo, dopo aver accumulato segni e simboli, immagini e odori. Si rimpicciolisce fino a tornare adolescente, anche soltanto con la memoria: quell’amore sugli scogli, la grande bellezza che lo colpì e che lo marchiò a fuoco, è l’unico riparo, libero e sereno, in una metropoli che toglie il fiato perché il fiato non l’ha più. A forza di organizzare ballare presenziare e pontificare, La grande bellezza assomiglia a Jep che assomiglia a Roma che assomiglia al mondo: un’interminabile corsa verso una meta inavvicinabile fra ossa e magnificenze varie, che a loro volta si assomigliano molto.