Il rabbino Benjamin Murmelstein, esule a Roma, comincia a raccontare a Claude Lanzmann, nel 1975, su un balconcino romano in vista dell’Altare della Patria, la storia sua e del campo di Terezin, oggi in Repubblica Ceca, a metà strada tra Praga e Dresda. Dopo la liberazione del campo, fu arrestato per collaborazionismo. Gli chiesero come fosse sopravvissuto. Ribatté prontamente: «E lei come mai è ancora vivo?». Ha forza di carattere, prontezza di spirito e ironia, il rabbino Murmelstein. Continua a parlare, si rifà a Le mille e una notte, storia di Sherazad che ha un infinito racconto da raccontare e così riesce a sopravvivere al sultano che uccide le sue mogli. Anche Murmelstein ha un infinito racconto da raccontare, quello del campo modello di Terezin, Theresienstadt per i nazisti, campo che Adolf Eichmann volle che fosse un campo modello. «Un regalo per gli ebrei», aveva detto Hitler. Come Sherazad, Murmelstein insiste a parlare e ricordare: Lanzmann lo ascolta. Le parole del rabbino e le domande di Lanzmann sono rimaste silenziose per tanti anni. Prima, 1945-1975, erano passati trent’anni dalla liberazione dei sopravvissuti. Poi, quasi altri quaranta da quell’intervista fino a oggi. Tanto tempo. Poco prima di ricordare Le mille e una notte, Murmelstein si rifà a un altro mito. Orfeo torna nel regno dei morti a riprendere Euridice, ma lui si volta a guardarla e lei viene risucchiata nella morte. Dice Murmelstein che anche per lui il voltarsi indietro, verso il passato, è pericoloso. Orfeo che non avrebbe dovuto guardarsi indietro e Sherazad che si salva non finendo mai il suo racconto: qui, tra queste due figure del mito, è dove si colloca Benjamin Murmelstein. Tra un passato che ti può risucchiare e un infinito parlare ricordando. «Sono sopravvissuto perché avevo un racconto da raccontare. Dovevo raccontare il racconto del paradiso degli ebrei, Theresienstadt». Claude Lanzmann ha dedicato alla tragedia dei campi tanti dei suoi ottantanove anni. Parigino, del 1925, partigiano nel 1943, amico di Jean-Paul Sartre, compagno di Simone de Beauvoir, direttore di «Les Temps Modernes», contro la guerra d’Algeria, regista di Pourquoi Israël (1972), film a sostegno di Israele dove ebrei e palestinesi potessero vivere insieme. Nel 1974, l’inizio del lavoro su Shoah (id.), pronto nel 1985, tutto parlato, di tante e tante ore. Poi, Sobibor, 14 ottobre 1943, ore 16.00 (Sobibór, 14 octobre 1943, 16.00 heures, 2001), sulla ribellione dei prigionieri del campo di Sobibor, vicino a Varsavia, sempre racconto di parole, quelle di Yehuda Lerner, uno dei capi della rivolta. E adesso, L’ultimo degli ingiusti. Murmelstein è stato il terzo rabbino capo del Consiglio degli anziani ebrei nel campo di Terezin. I primi due erano stati giustiziati con un colpo alla nuca. Quando Lanzmann lo intervista, non è la prima volta che Murmelstein si trova davanti a una cinepresa. Era accanto a Paul Eppstein, il secondo rabbino, quando i nazisti girarono Theresienstadt (1944), film di propaganda sul campo “modello”. La scena con Eppstein e Murmelstein vicini fu tagliata perché Eppstein era stato giustiziato poco dopo le riprese. Lanzmann mostra alcune scene del film nazista: un coro, vecchi che giocano a scacchi, bambini sorridenti, artigiani, una partita di calcio, i bagni. Un campo modello. Come aveva potuto salvarsi Murmelstein se non diventando un collaborazionista? Peggio: un collaboratore di Eichmann. Esule a Roma, Murmelstein muore nel 1989. Non è mai riuscito ad andare in Israele. L’avrebbe voluto. Nel 1975, ha l’occasione di tornare a raccontare. È di nuovo Sherazad. Parla per una settimana a Lanzmann che lo ascolta. Ma questa testimonianza non entra in Shoah. Per Israele e per gli ebrei, Murmelstein è il collaboratore di Eichmann. Il racconto di Sherazad si interrompe per altri quarant’anni. Le parole restano chiuse nel film e nella mente di Lanzmann: che adesso le ha resuscitate. Le parole superano i larghi spazi del tempo. Tutti e tre i film di Lanzmann sullo sterminio sono fatti di parole e di volti che le pronunciano. Minimi i materiali di repertorio. Sono frequenti, anche in questo L’ultimo degli ingiusti, le immagini del luoghi dove c’erano i campi (intesi come lager), dove ci sono ancora le costruzioni o dove non ci sono più e si vedono solo campi (intesi come prati) e boschi. È la parola a rifare all’indietro il percorso del tempo. Anche Lanzmann è diventato Sherazad. Una Sherazad che parla e fa parlare. Il racconto dello sterminio non accetta di essere narrazione per immagini. Solo le parole e chi parla. Lo sterminio non è mai l’oggetto diretto e visibile del lavoro di Lanzmann, non è nelle immagini. (Domanda decisiva: quali immagini poi?) Lo sterminio sta nelle parole dei tanti Sherazad che raccontano. Questa negazione della narrazione per immagini rende Shoah, Sobibor e L’ultimo degli ingiusti un impressionante lavoro di cinema “in assenza”. Cinema come ricostruzione e descrizione di un oggetto assente che si rivela in una lontananza fatta di parole ripetute per non morire, perché quella cosa non vista resti in vita, non torni nell’abisso. Non sia inghiottita dal passato come Euridice, non venga schiacciata dalla morte come una muta Sherazad. Le parole di Murmelstein, volto rotondo, occhiali, acutezza di argomentazioni, tornano alla tragedia. Dentro ciò che non può essere mostrato. Nella sospensione dell’immagine che non può essere vera perché lo sterminio è al di là di ogni immagine, solo la parola e un volto possono dire il non-immaginabile. Jean-François Lyotard: «Rappresentare “Auschwitz” in immagini, in parole, è un modo per farlo dimenticare. Non penso ai brutti film e alle serie televisive a grande diffusione, ai cattivi romanzi o alle “testimonianze”; penso piuttosto a ciò stesso che meglio può, o potrebbe, non farlo dimenticare, per l’esattezza, il rigore. Ma anche questo rappresenta ciò che deve restare irrappresentabile per non essere dimenticato, in conformità al suo essere – il dimenticato stesso. Solo il film di Claude Lanzmann, Shoah, fa eccezione, e non solo perché non offre praticamente nessuna testimonianza in cui non si indichi, anche per un solo istante, l’irrappresentabile dello sterminio: attraverso un’alterazione del timbro della voce, un nodo alla gola, un singhiozzo, le lacrime, una fuga del testimone fuori campo, una sregolatezza del tono del racconto, un gesto incontrollato. Di modo che si sappia che i testimoni impassibili, quali che siano, mentono sicuramente, “recitano”, “nascondono” qualcosa» (Heidegger e gli ebrei, Feltrinelli, Milano 1989, pag. 37). I nazisti che hanno coscienziosamente eliminato milioni di persone non hanno potuto cancellare le parole dei sopravvissuti, precise, fattuali: come la gente veniva portata ai campi, come vivevano e morivano. Nessuna questione filosofica o etica. Solo parole per dire ciò che è stato. Le parole, incancellabili, quelle sì, vanno filmate e ascoltate. E non ci sono grandi domande perché le risposte sarebbero piccole. Simone de Beauvoir: «La grande arte di Lanzmann consiste nel far parlare i luoghi, nel resuscitarli attraverso le voci e, al di là delle parole, nell’esprimere l’indicibile attraverso i volti» (La memoria dell’orrore, in Claude Lanzmann, Shoah, Einaudi, Torino 2007, pag. XV, con la trascrizione delle interviste e dei dialoghi del film). Lanzmann, anche in L’ultimo degli ingiusti, lascia che ad accadere siano la parola e un volto. Senza fronzoli, senza appesantimenti. Murmelstein è parole e volto. Lanzmann aggiunge solo i luoghi, una stazione, un edificio, un prato. L’assenza di ciò che è stato ne risulta ingigantita. Solo nel non mostrare lo sterminio può essere contenuto. Solo nel parlare Sherazad continua a vivere. Nella parola e su un volto, lo sterminio è ancora là e qui. Murmelstein è un altro dei narratori. Sancho Panza all’inferno, si definisce. Con lui, il racconto continua ad accompagnarci. Insieme a lui, Claude Lanzmann: che aveva cinquant’anni quando ha ascoltato Murmelstein, ne aveva sessanta quando è uscito Shoah, ne ha quasi novanta oggi quando dà voce a Murmelstein. Ha semplicemente filmato i parlanti e chiesto loro di raccontare.