Il secondo film di Alice Rohrwacher inizia nel buio, come il suo precedente. Anche qui fari d’auto si fanno largo nella notte, e lo spettatore dal buio della sala e dello schermo deve cominciare a orientarsi, a prendere possesso del mondo. Ma se Corpo celeste era passo passo il percorso di un’educazione sensoriale, Le meraviglie è un film tutto costruito, più ancora che sui corpi, sulle relazioni tra essi, e la regista non assume così direttamente il punto di vista di un solo personaggio.
Il film, per oltre un’ora, procede nella descrizione di una strana famiglia alternativa, patriarcale e piena di donne, libera dalle convenzioni e oppressa da costrizioni che si è imposta da sé. Il capofamiglia è una specie di post hippie tedesco che si è trasferito in Italia, e vive con la moglie e le quattro figlie femmine in una fattoria, dove insieme allevano le api, con metodi che ben presto saranno considerati obsoleti. E bisogna intanto chiarire una cosa che pochi hanno sottolineato, ossia il carattere storico del film, ambientato un po’ meno di vent’anni fa, e riflessione tra le più interne e intense sulle estreme propaggini degli ideali degli anni Settanta. La famiglia del film è davvero, per dirla con il titolo di una saggio di Christopher Lasch che chiudeva i conti col ’68, un «rifugio in un mondo senza cuore», e le sue dinamiche interne, per quanto diverse dalle famiglie della pubblicità o del cinema italiano consueto, ci risultano immediatamente credibili, appassionanti. Wolfgang, il padre, non è né buono né cattivo, è forte e debole nello stesso tempo, ha torto e ragione. La sua battaglia, ideologica e istintiva insieme, da ultimo giapponese, è contro il consumismo che ormai ha stravinto, e in fondo anche contro la sua versione colta e sinistrorsa, quella del biologico e del km zero, stile SlowFood-Farinetti-Nossiter. Non a caso la conduttrice sceglie di ripetere, tra le poche cose farfugliate dall’apicultore in diretta, la consolatoria «Ci sono cose che non si possono comprare», rimuovendo la frase più dura e perentoria, «Il mondo sta per finire».
La regista ci piomba in mezzo a questi strani personaggi, e da subito ci sentiamo prossimi in maniera totalmente non ideologica. Lo spazio in cui essi sono immersi, poi, disarma. Il lago in cui fanno il bagno, le cascate in cui appare loro la troupe televisiva sono filmati in maniera diversa da come il cinema di solito mostra “la natura”. Sono filmati come un muro scrostato o una strada: così, probabilmente, sente la natura chi ci vive dentro. E poche volte un film ce l’aveva fatto sentire. Le meraviglie insomma, fin dal titolo, non è un film realista. Chi lo ha letto come tale probabilmente scambia la verità dei tempi, degli accenti, e la palpabilità dei corpi, con il realismo, che è essenzialmente un effetto, una costruzione, un patto con lo spettatore. Il film è, questo sì, rosselliniano: ma non nel senso di neorealista (c’è ancora qualcuno che lo tira in ballo, perfino per registi come Garrone…) ma in quello della ricerca della grazia. Non troviamo davvero altro termine, ma insomma parliamo della capacità di costruire la relazione tra spazi sfruttando il caso, la capacità di soffermarsi su dettagli che diventano il cuore del film.
Questo film invece non permette ai critici colti di citare filosofi o sciorinare genealogie, e a quelli corrivi di dire le solite quattro cose sul neorealismo o la commedia all’italiana. Siamo su un altro livello, qui. Un livello in cui non si sente il raccontino, il Tema, e non si sente la voglia di spiegare tutto allo spettatore. Bisogna insomma, una volta tanto, guardare il film (e non leggerlo, come troppo spesso fa la critica). È ormai chiaro che c’è un cinema diverso, nutrito dal documentario o dall’incontro con le altre arti, e che su quello occorre puntare per trovare un senso al nostro cinema. Frammartino, Minervini, Rohrwacher, Marcello, Di Costanzo, Columbu, gli ultimi film di Mereu e Winspeare (le donne di In grazia di Dio hanno più di qualche elemento in comune con queste), i film che vengono visti da una piccola élite, ma magari in tutto il mondo, mettendoli insieme hanno delle somiglianze di famiglia che la critica continua a non voler riconoscere, considerandoli insieme al cinema italiano “normale” da David o da Nastro d’Argento, che magari incassa anche meno di loro.
E in effetti, che gli aspetti più deboli delle Meraviglie sono proprio quelli in cui la regista non porta fino in fondo il proprio progetto: l’arrivo di Adrian, l’amico del padre, che spiega un po’ di retroscena sociali sull’arrivo della famiglia, è superfluo, così come la trovata della fuga del ragazzino dopo il sabba matriarcale-erotico. Più in generale, la figura di Cocò (anche per via della recitazione di Sabine Timoteo) ha dei tratti un po’ teatrali, e forse il ragazzino rimane troppo in ombra, con un sospetto di strumento narrativo. Insomma, il film ha qualche difetto solo negli aspetti che condivide col cinema comune.
Se il numero con le api durante la recita è una delle scene più belle del cinema italiano del decennio, la statura dell’autrice emerge in maniera inequivoca in altri momenti, meno appariscenti. Come l’arrivo dell’autore del programma tv, subito dopo che una delle bambine si è tagliata e che il miele si è rovesciato sul pavimento. Quando tornano i genitori, i racconti di questi eventi (il miele, la ferita, il concorso tv) si accavallano in un dialogo serrato e ritmato, tra pianisequenza e voci che si accavallano, mentre ogni personaggio segue il suo filo. E alla fine, dopo una specie di caotico crescendo gestito con un tocco da commedia irresistibile, appare un cammello, ripreso come per caso, senza enfasi, e da un angolo entrano in campo strillando le bambine, in un equilibrio meraviglioso tra effetto di realismo e pura surrealtà.
Se il cinema d’autore oggi ama i finali sospesi, Rohrwacher progetta invece un vero finale, di piccola apocalissi. La famiglia vende tutto, si rifugia in un letto all’aria aperta e una panoramica di trecentosessanta gradi mostra la casa fatiscente, e torna alla fine del circolo sul letto vuoto. Le ultime parole dette dalle bambine sono: «Un fantasma, un fantasma!». L’ultima immagine è una coperta svolazzante (quella che stava sul letto?), sospesa in aria, come un velo o uno schermo. Chiarendo ancora una volta il proprio essere film di fantasmi (come molto cinema contemporaneo sull’infanzia, peraltro), che usa per raccontare la fiaba le armi proprie del cinema.