Tre personaggi – una coppia di anziani coniugi, la loro nuora – chiusi in un interno angusto e spoglio, che vivono in evidenti ristrettezze e tradiscono desiderio e ansia nei confronti del rispettivo figlio e marito: il penultimo lungometraggio di Manoel de Oliveira, Gebo e l’ombra (1) è serrato in un’essenzialità da kammerspiel, in un’attesa che si rivelerà vana: il figlio ritorna ma dopo poco tempo dilegua fuori campo. Gebo e l’ombra è una pièce scritta nel 1923 dal romanziere e drammaturgo realista Raul Brandão (1867-1930), che riaffiorò alla memoria di de Oliveira quando un amico gli suggerì di realizzare un film sulla povertà (2). Il regista ha scelto un’ambientazione che ricorda vagamente i primi del Novecento ma lasciando un voluto margine di indeterminatezza per adombrare il malessere provocato dalla crisi economica di questi ultimi anni (già implicitamente evocata nei recenti Singolarità di una ragazza bionda, 2009, e Lo strano caso di Angelica, 2010).
Pur essendo il personaggio più giovane del film, João è il fantasma evocato di continuo dalle parole degli altri: i suoi genitori Gebo e Doroteia e la moglie Sofia, rimasta a vivere con loro dopo la misteriosa scomparsa (forse esilio, forse fuga) di João. Ognuno vive questa assenza a suo modo: Sofia con un implicito timore e una rassegnata malinconia: Doroteia con dolore quasi isterico e rancoroso. Infatti il figlio, adorato e idealizzato, costituisce il centro dei suoi affetti e delle sue aspettative, al di fuori di ogni consapevolezza di quella che è la sua storia.
L’ombra del figlio
Gebo doveva essere interpretato da Michel Piccoli che, per ragioni meramente assicurative non ha potuto partecipare al film ed è stato sostituito da un altro grande attore francese, Michel Lonsdale, che introduce una diversa tonalità fisica, più grave, triste e per nulla ironica (come era Piccoli, anche nella disperazione del suo Gilbert Valence di Voglio tornare a casa o nella ripresa del cinico buñueliano Husson di Bella sempre). Gebo è un personaggio reticente che tiene occultata dentro di sè ogni sofferenza, dissimulandola con le menzogne e i silenzi. Le menzogne pietose che riserva soprattutto alla moglie (una Claudia Cardinale forse scelta anche come emblema di un’antica bellezza decaduta) che lo rimprovera sfogando in lamenti e recriminazioni il dolore per l’assenza di un figlio atteso come una palingenesi (e che, al momento di ritrovarla le riserva invece una sostanziale indifferenza).
In Gebo e l’ombra la strana attesa che pervade la casa (introdotta anche dalle prime inquadrature di Sofia, immersa in una laconica malinconia e interpretata dalla musa oliveriana Leonor Silveira) origina un clima di tensione sempre più inquietante, che si accentua quando João finalmente riappare ma senza portare riconciliazione in quello stremato e afflitto nucleo familiare, bensì caos e dramma (l’arresto di Gebo, che si autoaccusa del suo furto). Analogamente a quanto succedeva per il furto della cassetta delle elemosine in A Caixa (1994), già calato in una dimensione di miseria (in quel caso dei bassifondi).
(1) Il film è stato presentato alla sessantanovesima Mostra di Venezia quindi è stato tempestivamente trasmesso da Fuori Orario su RaiTre pochi giorni dopo la “prima” veneziana, il 10 settembre 2012. A fine giugno del 2014 è uscito in alcune sale italiane grazie allo sforzo distributivo di Mediaplex. (2) La genesi del film è raccontata dal regista nell’intervista “La vie n’a pas d’explication, elle se déroule”. Entretien avec Manoel de Oliveira, a cura di António Preto, «Cahiers du Cinéma» n. 682, ottobre 2012. (3) “La vie n’a pas d’explication, elle se déroule”. Entretien avec Manoel de Oliveira, cit., pag. 42.