CINEFORUM / 540

Tempi moderni

Che cosa accomuna tre film in apparenza così distanti come Il giovane favoloso, Torneranno i prati, Due giorni, una notte? Il filo rosso che li attraversa mi pare sia quello del valore da attribuire senza remore all’affermazione della dignità della persona umana contrapposta alla violenza (ideologica, fisica, economica) generata dal dominio incontrastato di una certa idea di progresso. Quel progresso di fronte al quale si prostrano gli intellettuali italiani che irridono alla malinconia del poeta di Recanati; lo stesso da cui sono state generate le tecnologie distruttive che tanti soldati delle trincee del Primo conflitto mondiale hanno dovuto subire, ubbidendo a ordini insensati che li mandavano scientemente alla morte. Lo stesso, infine, che si è fatto sempre corteggiare dal sistema economico fondato sul profitto e sull’accumulazione di capitali, in un osceno rituale destinato a mostrare tutta la sua disumanità e la sua immoralità proprio quando le sue pedine più deboli avrebbero più bisogno di aiuto in quanto persone. Per loro sfortuna sono soltanto risorse umane, forza lavoro in mobilità sul mercato. Anche nella dislocazione cronologica delle vicende narrate, il film di Martone, quello di Olmi e quello dei Dardenne tracciano un percorso significativo. Che mette in chiaro innanzitutto la posizione irriducibile del poeta e filosofo recanatese che, quantomeno nell’irrisione della cieca fiducia nelle «magnifiche sorti…», anticipava il giudizio dell’altro grande misconosciuto del Diciannovesimo secolo italiano, Giovanni Verga, per il quale il progresso «è grandioso nel suo risultato» solo se «visto da lontano», da dove non si percepiscono «i deboli che restano per via, i fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire al più presto». E una volta stabilito quale deve essere il punto di partenza, ci mostra senza barare come il mondo in cui ci tocca abitare è comunque un mondo in guerra, nel quale regna su ogni altra modalità d’esistenza quella della precarietà. Non sapere se tra un’ora si sarà ancora vivi è la condizione dei soldati al fronte. Non sapere se domani si potrà essere ancora in grado di garantirsi un’esistenza dignitosa è quella degli operai in tempo di crisi globale. E ancora di più se invece di operai al maschile parliamo di operaia, donna e in quanto tale ancora più esposta all’attacco del capitale incattivito dalla recessione. Il fuoco del nemico che poche ore prima applaudiva la tua canzone. Il fuoco amico di chi fino al giorno prima sembrava condividere la tua condizione di classe. Non cerchiamo di illuderci: quando i prati torneranno, insieme alla neve svanirà la memoria di chi là in mezzo ha, come si dice, reso l’anima. E l’attendente che ce lo ricorda con dignitosa amarezza potrebbe non arrivarci mai a vederli, quei prati. L’operaia licenziata che riprende a testa alta la sua lotta – non di classe ma per la sopravvivenza – mostra la stessa dignità, sulla quale lascia anche fiorire un sorriso, giustificato soltanto da una troppo vulnerabile caparbietà.