CINEFORUM / 543

Tempus fugit

La sensazione, all’indomani di una tale autorializzazione, è che non si è più adeguati. Che vuol dire anche non essere più pronti. Dopo anni e anni di parole sul cinema di Michael Mann, dopo così tanto scriverne e aver cercato di sistemarlo in idee e immaginari, e talvolta in schemi, e inquadrato incorniciato esposto e guardato e riguardato, dopo così tanto tempo speso per il cinema di Michael Mann, adesso ci si rende conto che quel tempo speso è anche passato, nel senso che è trascorso, ed è trascorso per tutti, per il suo cinema e per chi ne deve parlare, e quindi ci si rende conto di non avere forse più gli strumenti giusti per scriverne oggi, perché insistere a sottolinearne gli stessi pregi e le stesse bellezze, gli stessi dettagli, non fa bene a nessuno, né allo spettatore né alla critica né al cinema stesso, dopo anni e anni di insistenze e sottolineature, perché la ripetizione è anche noia ed è fatale sebbene perfettamente comprensibile, e perché l’amore è tale solo per chi lo vive, e dunque ci si rende conto che la necessità di qualche riflessione più aggiornata è veramente urgente, qui e ora, una riflessione diversa dal solito, diversa dalle domande prevedibili che garantiscono soltanto risposte pensieri idee prevedibili, qualche riflessione su come esercitare il proprio mestiere quando ci si accorge che quel mestiere, il modo di metterlo in pratica, le scelte che si fanno, parole espressioni pensieri, le idee che si propongono, tutto è forse improvvisamente invecchiato superato inutile di fronte a un cinema che ti ha sorpassato a destra ed è andato avanti senza che tu neanche te ne accorgessi, lasciandoti con quel mestiere e quelle parole usate per anni e anni che adesso non servono più a niente, se non a osservare qualcosa che esiste per essere osservata con l’egoismo e l’arroganza di chi non accetta che ciò che si osserva ha mutato abito, è uscito di casa, cioè è uscito dalle tue parole, dai tuoi immaginari, dai tuoi schemi, ha camminato nuove strade, abbandonandoti indietro, e anzi costringendoti a capire, e questa è una sconfitta ancora più amara, che un tale cambiamento è in atto già da tempo, e che mentre tu eri lì a perseverare e a ribadire, e a perseverare e a ribadire ancora, questo cinema ti guardava già da lontano, e tu lo guardavi ovviamente sfocato, impreciso, perché a una distanza troppo grave da poterlo vedere bene, e allora si rimane disarmati, e si capisce non solo che il tempo ha percorso lunghezze inammissibili, non solo che il tempo è andato dove non si è stati invitati, ma che adesso per recuperare questa distanza, per cercare di correre almeno un po’ verso quell’immagine sfocata, in maniera da vederla meglio per ricordarne i contorni e magari la figura intera, per ricordarne la passione, ammesso che la passione sia ancora disposta a ricordare te, ecco, per riprendere fra le mani e negli occhi quella cosa lontana, si è obbligati a smettere i panni consueti e finora portati comodamente e tentare – perché è inevitabile andare per tentativi – di sceglierne dei nuovi, nuove cose da dire, nuovi pensieri da pensare, nuovi modi per confessare la tua appartenenza, altrimenti si rischia di rimanere indietro sempre quel tanto che basta a rendersi inadeguati, insufficienti sia per questo cinema che si dice di amare, sia per il tempo che fugge e che si vuole dimostrare di saper fermare giocando con l’autorialità e il mestiere stesso, mentre forse sarebbe più opportuno decidere di svestirsi dei vestiti confortevoli del palcoscenico, quelli agiati della penna inammissibilmente più veloce del tempo stesso, e indossare quelli meno semplici del camerino, in continua prova di ciò che potrebbe andare meglio, che potrebbe essere più idoneo, per sbarazzarsi una volta per tutte di ogni orgoglio e di ogni superbia e ammettere finalmente che a volte, non sempre, però capita, non si ha l’ultima parola, perché ce l’ha chi si è deciso di amare.

E quindi Blackhat. Che è un film precisamente manniano eppure di un Mann diverso, perché Mann è diverso già da qualche anno, e non è più quello di Manhunter – Frammenti di un omicidio (Manhunter, 1986) e neanche più quello di Heat – La sfida (Heat, 1995), non può più esserlo, e questo bisogna capirlo, e l’ha capito soprattutto il suo cinema, che adesso piega l’immaginario autoriale, prepotentemente autoriale, a una forma che sembra la sintesi della forma manniana precedente, oltre la durata, oltre la storia e le storie, alla ricerca di uno stile che sia in grado di contenere il mondo, e non solo di rappresentarlo, che sia in grado di parlare di persone che fanno fatica ad essere contenute nel mondo, chiuse, circoscritte, regolate, e che quel mondo lo guardano scappare e accartocciarsi, fra le fiamme e il caos, perché la realtà fugge esattamente come il tempo, tutt’e due corrono troppo veloci da poterli fermare, figuriamoci comprendere, quindi non resta che correre con loro, da una parte all’altra del globo, dagli Stati Uniti a Hong Kong all’Indonesia e via ancora, quasi senza soluzione di continuità, attraverso città che sembrano schede madri e schede madri che sembrano metropoli iridescenti, attraverso strade e curve e discese in cui si può trovare la fine, una fine che ha il significato di un trapasso verso un’altra identità, diventare fantasmi, trasparenze nel reale che non ti vede più come in Nemico pubblico (Public Enemies, 2009) non era visto John Dillinger nella stazione di polizia in pieno giorno, fantasmi destinati ovviamente all’isolamento ma fantasmi capaci di amare e di amarsi, chiamati ad amarsi, sempre più convergenti mentre il mondo diverge, mentre i legami di sangue si sciolgono nel sangue e gli affetti svaniscono, in un film che dice addio alle cose e al mondo, ma non alla persona che ami, che anzi è ciò che ti dà vita in un reale di morte, no, a lei non dici addio, la prendi per mano e stretta la conduci fuori dal reale, fuori dal mondo, in corse che sono voli che sono addii, addio perfino a Hollywood, dentro Hollywood ma mai così fuori, mai così estraneo, lontano dal dato e dal previsto e completamente addosso attaccato aggrappato a un’astrazione che cerca il suo senso mentre si fa, un’astrazione travolgente che insegue personaggi e eventi mentre li travolge, li trascina via, controcorrente, contro la corrente delle litanie e dei riti, sgomitando, facendosi largo come si faceva largo fra la folla l’agente Melvin Purvis fuori dal Biograph per raggiungere Dillinger, scandendo gesti e parole, ritmando le pause e trovando tempi impensabili, trovando il tempo delle pause, paradossale quando non c’è più tempo, eppure di tempo per guardarsi ce n’è ancora, per soffermarsi sugli occhi che ami e sul cuore che hai deciso di amare e di seguire nonostante tutto, nonostante il collasso del presente e l’indeterminatezza del futuro, perché è l’unica cosa da fare, l’unica cosa veramente giusta per non soccombere, am I being tangible?, l’unica cosa concreta per non darla vinta alla realtà dei fatti, perché ancora una volta nel cinema di Michael Mann sono i sentimenti che riescono a non soccombere, quelli sì, e sono i sentimenti ad essere inammissibilmente tangible, concreti, chiari, talmente concreti che sembra di toccarli, oltre che viverli, di vederli, oltre che sentirli, a tal punto che non è un caso se Mann sceglie l’astrazione, perché è lì che prova a sperimentare, lì cerca il senso ultimo delle cose, la verità, dentro gli iati della vita, nel vuoto delle ellissi del reale, lì forse il film trova davvero la sua ragione, la sua appartenenza, nei luoghi assenti, negli spazi che mancano e che proprio per questo consentono al regista di prendere traiettorie altrimenti impossibili, di prendere le misure del non misurabile, per un continuo collaudo in fieri, la costante verifica di uno stile che in effetti non ammette nessuna verifica, non ammette nessun collaudo, perché scivola via, vola via dai manuali e dai galatei, anche a loro dice addio, come lo dice a noi spettatori, perfino ai più smaliziati, perfino ai più interni, anch’essi persi in un altro iato, quello della lontananza fra sé e questo cinema, impossibile da colmare se non nel tempo, che ancora una volta, dopo essere passato trascorso fuggito, ancora una volta ci viene in soccorso, e meno male che c’è, il tempo, anche quando sembra non esserci più, perché è solo col tempo che potremo riavvicinarci.

Quindi sì, Blackhat.