Spetta a Diao Yi’nan con Fuochi d’artificio in pieno giorno il privilegio di alzare il prestigioso Orso d’oro a conclusione della Berlinale 2014, scalzando non solo l’acclamatissimo Richard Linklater (Boyhood) ma anche il connazionale Ye Lou (Blind Massage) e il quotatissimo Grand Budapest Hotel dell’eclettico Wes Anderson. L’arma vincente del regista cinese è la capacità di rilanciare un genere, quello noir, che da troppo tempo sembra aver perso sia l’esplosiva carica drammatica, sia quel fascino misterioso, vagamente borderline, che ne aveva permesso una vera e propria proliferazione negli anni Quaranta e Cinquanta del Secolo scorso. Nonostante siano passati ormai molti anni dai classici La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder, La donna del ritratto (1944) di Fritz Lang, Giungla d’asfalto (1950) di John Huston e tanti altri, è evidente come Diao sia perfettamente consapevole di quelli che sono i topoi stilistici ricorrenti. Il suo protagonista, Zhang Zili (interpretato da un convincente Liao Fan, vincitore dell’Orso d’argento per il miglior attore) è un poliziotto tormentato, perdente, trasandato e in cerca di riscatto; l’ambientazione è immancabilmente metropolitana – un’anonima cittadina nel nord della Cina – e non poteva mancare la sensuale dark lady Wu Zhizhen (Kwai Lun-mei), eccezionale virago postmoderna modellata sulle stantie old weird witches che infestavano gli incubi visivi di Robert Aldrich (Che fine ha fatto Baby Jane?). Anche il plot è tradizionale: l’ispettore Zhang indaga sul caso di un cadavere fatto a pezzi e ritrovato in alcune fabbriche di carbone, vicenda che sembra coinvolgere la taciturna impiegata di lavanderia Wu, il cui candore si riflette nell’innevata pianura cinese. Perché, allora, Fuochi d’artificio in pieno giorno può essere considerato un lavoro fresco, ammagliante e innovativo? Sicuramente la sua più grande caratteristica è quella di intrigare dolcemente lo spettatore nella stereotipica vicenda poliziesca, convincerlo che l’immagine non ha nulla da mostrare, se non qualche letale colpo di scena narrativo, e accompagnarlo in quei labirinti “darkeggianti” dall’aroma familiare. Neanche il tempo di accomodarsi, di gustare sapori conosciuti e di osservare una normalissima scena d’irruzione in un locale sospetto, e tutto va di traverso: montaggio analogico, sbuca una pistola, stacco, urla di una signora, nuovo stacco, un ospedale. Ma oltre a questo continuo effetto sorpresa, ciò che più colpisce nella pellicola cinese è l’amore per lo stravagante, il nonsense e il sarcasmo esistenziale di alcuni avvenimenti: il furto della motocicletta di Zhang, ubriaco fradicio e seduto ai margini della strada; la goffa rincorsa dell’assassino su una strada ghiacciata; la presenza ingiustificata di un cavallo nei corridoi dell’edificio della stazione di Polizia. Grazie a questi piccoli dettagli, il regista è in grado di decostruire “dal basso” il genere narrativo, arricchendolo di una vena grottesca, quasi surreale, e di un’ironia sottile, beffarda, che non è mai riuscita a farsi strada nella seriosità del noir. Una decostruzione dal basso, dicevo, perché Diao non intacca né i topoi né la filosofia monumentale del noir, tant’è che ripresenta, in chiave aggiornata, il ricco tema dell’unheimliche freudiano, incarnato nella femme fatale Wu Zhizhen, personaggio familiare e rassicurante, ma allo stesso tempo inconsueto, estraneo, nascosto. Complice una fotografia superlativa, che privilegia tonalità fredde ed esangui, esacerbate da un algido amplesso su una ruota panoramica, Fuochi d’artificio in pieno giorno è forse la più grande sorpresa di questa calda estate cinematografica: il giovane regista cinese Diao Yi’nan è riuscito a rinvigorire un genere stantio da troppi anni. Lo spettacolo pirotecnico in pieno giorno della pellicola mostra come la realtà, anche in un noir, non è solo bianca o nera e che la fantasia, l’imprevisto e l’inatteso sono sempre sotto i nostri occhi, basta sapere dove cercare.