La vita a volte è solo brusio. Rumore di fondo. Come quello che apre Anomalisa, dentro uno schermo nero. Come le voci tutte uguali percepite da Michael Stone, esperto in “servizio clienti”, motivatore, professionista del consumo felice, quindi apprezzato opinion leader (scrive libri, tiene conferenze) in un mondo ridotto a un tedioso supermercato, dove si comprano e vendono cose, rapporti, ruoli, ben ordinati sugli scaffali. Peccato che Micheal si senta “maledettamente solo”: «Penso di avere un problema. Qualsiasi cosa mi annoia». E non sembrano stare meglio gli esseri tutti simili che lo circondano – maschi e femmine, adulti e bambini, ricchi e poveri – a giudicare dal tizio che gli tiene la mano sull’aereo e non la molla anche quando la paura del volo è passata. Tutti parlano con l’unico scopo apparente di riempire il silenzio, con cortese, meccanica, enfatica prevedibilità. Si passa da un non-luogo all’altro, i corridoi sono infiniti e claustrofobici, gli spazi troppo pieni o troppo vuoti. La prima immagine del film è una striscia di luce in un cielo pieno di nuvole. Un carrello laterale segue un aereo in volo. Il viaggio è sempre una bella metafora, ma della vita degli altri. Noi siamo quelli che osservano volo, viaggio e metafora dal finestrino di un altro aereo, dove sta il nostro eroe annoiato. Traiettorie parallele. Michael è un pupazzo come gli altri, con un corpo tozzo, sgraziato, e una vita che segue i soliti schemi. Il pessimismo esistenziale che attraversa tutto il cinema di Charlie Kaufman, qui raggiunge il suo dolente apogeo. Ma stavolta non ha bisogno di narrazioni labirintiche o invenzioni in serie. La trama è esile, essenziale, lo svolgimento quasi classico. Per centrare il tema e comunicare l’idea-emozione, gli basta l’intuizione della voce che rimbalza sempre uguale da un personaggio all’altro, dando corpo all’incubo di un mondo e di una vita maledettamente prevedibili. Fino a quando arriva quel suono diverso da tutti gli altri, quella voce unica, sublime rappresentazione dell’amore e della sua irrazionalità, senza bisogno di troppe spiegazioni o complicazioni narrative. Ossessionato dall’originalità, stavolta Kaufman, in collaborazione con Duke Johnson, ci regala la provocazione di un film d’animazione in stop motion in cui capita di imbattersi in un’inquadratura fissa in campo medio per due minuti e venti sull’imbarazzo di un uomo che telefona a un’ex amante. In cui i personaggi farfugliano pensieri inutili e/o confusi, assumono Zoloft, si esprimono in rosari di «Fuck», fanno sesso con un realismo tenero e impacciato che raramente si vede nel cinema “reale”. Malinconia, umorismo, sospensione, depressione, vergogna, poesia, incubo. Dopo trenta minuti c’è una delle scene chiave del film, un piano sequenza lungo due minuti che ne riassume lo stile e l’atmosfera: la mdp si sposta all’interno della camera d’albergo di Michael, affacciandosi all’entrata del bagno; lui è un’ombra colorata che litiga con la temperatura dell’acqua e sacramenta saltellando, riflesso in un vetro, dietro il box doccia; la scena è comica ed è ostinatamente aggrappata al reale, alla durata di un tempo insignificante; quando Michael esce dalla doccia, lo possiamo contemplare in tutta la sua flaccida, nuda normalità; a quel punto la mdp avanza dentro il bagno e finisce di fianco allo specchio appannato; ed ecco la sorpresa surreale, l’inquietante deviazione (resa più angosciante dalla normalità che la precede), il viso che vive di vita propria, il volto dell’uomo-pupazzo che sembra sul punto di smontarsi (una giuntura attraversa gli occhi alla radice del naso, l’altra contorna il viso passando davanti alle orecchie); è il suono di una voce diversa da tutte le altre a liberarlo-liberarci dall’insostenibile tensione del piano sequenza, con uno stacco che ci proietta verso una novità, una speranza. Il fatto è che Lisa è una persona assolutamente normale. Non è particolarmente intelligente. Non è bella (anzi, è decisamente bruttina). Non ha talenti nascosti o chissà quali intuizioni. Imbranata, goffa, timida, chiacchierona. Eppure tutto ciò che dice, anche la cosa più stupida, suona diversamente, divinamente. La parola «Mojito», sulle sue labbra, diventa qualcosa di magico. I suoi gusti mediocri sono trasfigurati dall’amore. Una canzone di Cindy Lauper si trasforma in poesia. «Finalmente ti ho trovata». Un’anomalia. Anomalisa. Li vediamo impacciati, sgraziati, alle prese con l’anomalia dell’amore, l’illusione dell’attrazione fatale che libera e salva. La mdp squaderna l’atto dentro una manciata di inquadrature che impacchettano la scena come fosse un’assonometria. Totale laterale da destra, piano medio frontale, inquadratura dall’alto, piano medio da sinistra con cunnilingus, soggettiva e controcampo, salto improvviso dall’altro lato della scena, vista da lontano fino all’orgasmo. In quel pezzo di spazio-tempo, sei minuti più o meno, siamo passati dall’adesione emozionata, la percezione della meravigliosa anomalia, la simpatia per l’umanità che trascende i pupazzi, alla sensazione della normalizzazione incombente, della solitudine inevitabile. Fino a quando quella voce sembrerà diversa dalle altre? «Cosa vuol dire sentirsi vivi?». «Ricordatevi di sorridere». «La morte arriva in un attimo ed è come se non foste mai esistiti». «Il mondo sta cadendo a pezzi». «Tu chi sei in realtà?». Lisa ha il sole tra i capelli, ma Michael non la può vedere. Difficile dire se sia solo colpa sua, della sua patetica maldestra egoista romantica ricerca di un “eternal sunshine”, di qualcosa o qualcuno che sia vero, diverso, “immacolato”. E poco importa che la storia appaia come un’immersione in una mente malata: non per niente l’hotel si chiama Fregoli, come la sindrome psichiatrica che trasforma tutti gli abitanti del mondo in un unico individuo persecutore. La malattia, ovviamente, è allegoria. Il fregolismo è un effetto collaterale della nostra ostinata fede nell’infelicità, della presunzione che ci dovrebbe salvare dall’omologazione, dell’incapacità di accettare che viviamo in un modo intrinsecamente imperfetto. Può bastare un unico momento di grazia? Di chi è la colpa se non siamo in grado di viverlo fino in fondo, di accettare che passerà anche quello, di capire che la felicità non sta in un luogo o in una persona? Affascinante, destabilizzante, struggente. Ma non provate a ricavarne una morale. «A volte non c’è alcuna lezione. Questa è la vera lezione».