Dicono che “a Cannes vanno gli Autori”. E non è un complimento. La A maiuscola sta lì a indicare una certa magniloquenza mainstream, una vocazione a celebrare se stessa e la propria idea di cinema (dai contorni vaghi), una (pre)potenza mediatica fondata sulla quantità e i Grandi Nomi (maiuscole anche qui). Dicono che ci vorrebbe più selezione, più ricerca, più rigore, ma anche più attenzione ai generi o allo spettacolo; qualcuno vorrebbe più Est e qualcun altro più Sud, per non parlare di Hollywood che latita da tempo; alcuni reclamano una maggiore sensibilità nei confronti dei “nuovi modi di produzione e fruizione” invece di concentrarsi sempre sulla vecchia ossessione del film d’arte, di stile e/o di contenuto (d’Autore), realizzato dal solito regista-artista che ha un suo modo personale di usare il linguaggio cinematografico. Di solito, se chiedi qualche dettaglio in merito, spuntano due o tre nomi e una manciata di titoli, dopo di che il lamento prende la forma di un confuso anelito verso qualcosa che qualcuno dovrebbe provare a concretizzare in qualche modo. E che di solito assomiglia alla propria (personalissima) idea di ciò che dovrebbe essere la settima arte. Se poi fai notare che Cannes 2016 ha offerto una quantità (qualità) insperata di grande cinema (Paterson, Elle, Neruda), di opere importanti (Sieranevada, Bacalaureat, Forushande) o anche solo interessanti (Mademoiselle, American Honey, Me’ever Laharim), di visioni personali (Personal Shopper, La mort de Louis XIV) e rivelazioni di realtà poco conosciute (Caini, Aquarius), di solidi racconti tradizionali (Loving, Tour de France) e notevoli esercizi di stile (The Neon Demon, Juste la fin du monde), ti rispondono che non è questo il punto. E non bastano neppure le scoperte di Juho Kousmanen, Maha Haj, Bogdan Mirika, Michael Dudok de Wit (tutti al primo lungometraggio, tutti molto apprezzati), o il sovrappiù di una Quinzaine stupefacente (il cui programma potrebbe benissimo essere la selezione ufficiale di un qualsiasi altro grande festival del mondo, a partire da Venezia) grazie ai Larraín Lafosse Kashyap Barras Giovannesi. Ma davvero il compito di un festival come Cannes dovrebbe essere quello di “indicare una direzione”? Dare una lettura più personale e coraggiosa del panorama cinematografico internazionale? Asciugare la selezione per garantire maggiore visibilità a chi ne avrebbe bisogno? Sacrificare un po’ di ritualità atmosfera mondanità tradizione Autorialità per cimentarsi in un qualche lavoro critico-scientifico? Allargare lo sguardo all’universo della serialità, delle produzioni cine-televisive, dell’animazione, della videoarte, della sperimentazione video-qualcosa? Forse invece la forza e la bellezza del festival di Cannes stanno proprio nella sua bulimica prosopopea autoriale, nella sovrabbondanza neutrale – c’è l’ovvio di valore ma anche scoperte, indicazioni, spizzichi e bocconi d’altri mondi – che si apre a tanti percorsi e letture diverse. Forse spetta ad altri – altri festival, rassegne, circuiti alternativi, filmlab e filmfound – fare quel lavoro di scoperta, selezione e proposta critico-scientifica, scegliere autori e artigiani da portare all’attenzione dei media e degli spettatori più curiosi (magari pescando anche tra le pieghe di Cannes), ampliare lo sguardo a universi audiovisivi snobbati sulla Croisette. Ciò che continua a mancare, semmai, è un “sistema” che consenta a Cannes di aprirsi al mondo No Presse e No Industry, una qualche piattaforma online che dia spazio a quei film destinati ad essere schiacciati dai colossi, un utopico circuito culturale che possa godere di un accesso privilegiato ai film selezionati, offrendo un’occasione anche a chi non ha nessuna possibilità di trovare una distribuzione. Per il resto, lasciatecelo dire: dateci altre dieci, cento, mille di queste annate, in cui per una qualche confluenza astrale la calamita-Cannes è riuscita ad attirare sulla Croisette vecchi grandi autori e nuovi fenomeni, intellettuali rigorosi e maestri dello spettacolo cinematografico, con una varietà di spunti e stili che fa la felicità di noi critici aristotelici, quelli cioè che non coltivano una qualche Idea platonica di forma cinematografica perfetta e giusta. Noi passiamo volentieri dal rigore della coreografia in piano sequenza di Cristi Puiu, alla semplice poesia animata di un cartoon delicato e lirico scritto da Céline Sciamma (Ma vie de Courgette); dall’ipnotico delirio cromato di Nicolas Winding Refn, al cinema super-classico, di alta retorica e sincero sentimentalismo, firmato Jeff Nichols; dalla vitalità senza misura di Andrea Arnold, alla “morte al lavoro” contemplata senza pietà da Albert Serra; dalla beffarda provocazione anarchica di Paul Verhoeven, alla magnifica cronaca di un amore che finisce raccontato da Joachim Lafosse; dalla brulicante caotica carnale umanità super-realista pedinata da Brillante Mendoza, al dialogo con l’invisibile (l’oltrevita e l’oltrecinema) intrattenuto da Olivier Assayas. Sarà sempre interessante confrontarsi con chi è convinto che stavamo meglio quando stavamo peggio, perché una volta c’era il vero cinema narrativo o il rigore della sperimentazione anti-narrativa pura, c’era il piano sequenza utilizzato a proposito e non come esibizione di potenza (estetica), c’erano generi usati in quanto tali e non come repertorio a cui attingere autorialmente, eccetera eccetera. Ci sarà sempre anche chi vagherà da un festival all’altro, vagamente annoiato, alla disperata ricerca del capolavoro, dell’opera rivoluzionaria, del cinema che dà risposte (una qualsiasi, possibilmente quella definitiva), del film costruito a propria immagine e somiglianza. Noi ci accontentiamo di svegliarci ogni mattina con l’antieroe di Jarmusch – ogni giorno ha la sua (dolce) pena e la sua (trasparente) poesia – riflessi nello sguardo vuoto di un cane sabotatore, dentro un cinema fatto di rime interne e domestiche evidenze che ci pone di fronte alla verità della “pagina vuota” che è la nostra vita (volete un capolavoro? Eccolo). Di abitare la Romania dei piccoli soprusi, compromessi, raccomandazioni, che è lo specchio di tutto un mondo e una società in cui viviamo anche noi, condotti per mano da un regista come Mungiu, che non va mai fuori spartito ma sa usare toni, semitoni, pause e “vibrati” come pochi (volete un film che non usi ma sveli la realtà, che riesca a tenere insieme il particolare e l’universale? Eccolo). Di perdersi tra i “veri” fantasmi e gli ectoplasmi cinematografici di Assayas, dentro uno di quei film che se ne fregano della misura e della buona creanza, tra bicchieri volanti e movimenti di macchina che fotografano il vuoto in movimento, evocando i tavoli parlanti dello spiritismo e usando whatsapp come acceleratore di suspense (smaterializzata), mentre racconta la storia di una ragazza alle prese coi propri spettri interiori (volete cinema metafisico, misterioso, sperimentale? Eccolo). Volendo parlare di “massimi sistemi” e di “cinema d’autore” (con la a minuscola), potremmo pure rintracciare due tendenze fondamentali – che forse ci porteranno oltre il “cinema gassoso”, frantumato, in cerca di sé, di cui abbiamo scritto qualche anno fa, venuto dopo il “ritorno alla realtà” legato al ricominciamento della storia (post 2001), una volta che si era esaurita la spinta del miglior cinema post-moderno. Una è quella dei registi che hanno una forte consapevolezza estetica e linguistica e utilizzano il loro codice personale per provare a guardare meglio la realtà, più intensamente, più in profondità. Dai campioni del nuovo cinema rumeno alla Arnold, da Mendoza ai soliti Dardenne, passando per Farhadi o Djaîdani (che dopo Rengaine ha dimostrato di saper maneggiare anche un cinema più “popolare”): autori molto radicati nel loro contesto (o in quello che scelgono di esplorare), che con la forza dello stile e delle idee si fanno interpreti efficaci del mondo in cui viviamo. L’altra è quella dei registi che forzano i confini del cinema e ragionano sull’ontologia dell’immagine, che hanno un’enorme consapevolezza del proprio talento e non lo nascondono, che danno l’impressione di vedere più lontano o semplicemente di essere così liberi e cinefili da osare nuove strade, a volte riuscendoci e altre scivolando rovinosamente. Ed ecco allora Refn, che lambisce l’astrazione e l’installazione video-artistica, ecco il vitalismo kitsch e il genio esuberante di Dolan, ecco i fantasmi di Assayas. Cannes è un repertorio che va usato, goduto e interpretato. E che spesso contribuisce a rivelare autori e film (solo negli ultimi dieci anni potremmo citare Ceylan, Mungiu, Lisandro Alonso, Apichatpong Weerasethakul). Poi capita l’anno in cui alla giuria viene voglia di ribadire che “un altro mondo è possibile”, e allora tocca commentare la Palma d’Oro a Ken Loach, che sembra più un omaggio al discorso del premiato piuttosto che al film, di cui al massimo puoi apprezzare il mestiere e l’onestà, visto che non aggiunge nulla al suo cinema e neppure a quello degli altri. Cannes sopravviverà anche a questo equivoco.