Per comprendere il funzionamento dell’horror contemporaneo, o comunque per provare a individuarne alcune direttrici fondamentali occorre partire dal profondo senso di smarrimento collettivo generato dall’assenza di prospettive, di futuro. La mancanza di una possibilità sostenibile di guardare avanti con fiducia e ragionevolezza si traduce soprattutto in soggetti giovani, cineasti compresi, molto spesso in esigenza forte e appena mimetizzata da effetto vintage di marcare le radici. Cioè di aggrapparsi a una cognizione, se non di effetto, almeno di causa. L’ostentazione della messa in scena del passato, la sua riconfigurazione e perpetua riscrittura, cinematograficamente parlando, assume una connotazione ossessiva. Ripetere, moltiplicare, serializzare un dispositivo pauroso possibilmente retrodatato, quindi sicuro e consolidato, non rientra affatto in una strutturale incapacità di inventare qualcosa di nuovo, ma è esso stesso il sintomo di una paura diffusa e dilagante. Paura di non poter più esistere o resistere all’ignoto contingente, o non troppo a lungo. Donde la necessità di proseguire ininterrottamente, omaggiare i modelli pregressi, rievocandoli o citandoli, non fa differenza, e con essa la prassi di riattivare, riannodare maniacalmente i fili del racconto. Costruire meccanismi narrativi modulari, concatenati, appaltabili, riproducibili, numerabili, come marchi di fabbrica e garanzia di qualità oltre che di continuità serve a esorcizzare quest’horror vacui che accompagna l’idea stessa di prospettiva, molto compromessa. Ora, tutto questo trova un’immediata applicazione in tanti film di genere orrorifico, prototipi, sequel o persino più fisiologicamente prequel, nell’ottica appunto di chi non riuscendo a ipotizzare scenari avanzati ripensa a quelli alle spalle. Uno di questi, non necessariamente il più emblematico, non il primo né l’ultimo in grado di farsi carico del dover essere classico, o per meglio dire riconducibile ai classici, è il secondo The Conjuring di James Wan. Che non a caso insiste molto su una canzone assai nota, un evergreen che dapprincipio non può essere ascoltato dai protagonisti poiché lo strumento di riproduzione tipicamente vintage, il giradischi, non funziona. E non funziona per via delle presenze demoniache che affliggono la casa del sobborgo londinese in cui sono sopraggiunti dagli Stati Uniti i due detective del sovrannaturale Ed e Lorraine Warren. La canzone in questione non per niente è una delle più note del repertorio di Elvis Presley, Can't Help Falling in Love, proveniente dal vecchio Blue Hawaii di Norman Taurog e dall’omonima colonna sonora. Non sorprende che questa circostanza acquisti spessore di centralità meta-testuale nel film di Wan, in quanto sequel del già suo The Conjuring, di cui conserva l’impronta autoriale diretta, diversamente dallo spin-off Annabelle. Wan ha infatti ceduto la regia di quest’ultimo all’ex direttore del film apripista, John R. Leonetti. Se dunque non si riesce nel corso di The Conjuring – Il caso Enfield ad ascoltare la canzone cantata da Elvis Presley, dovendosi accontentare di un’esecuzione pregevole ma pur sempre improvvisata, artigianale e volenterosa di Ed Warren, insomma una dignitosa cover, è perché l’originale rappresenta sempre una meta consapevolmente irraggiungibile. Detto altrimenti, James Wan sa molto bene di non poter rifare film a lui particolarmente cari come L’esorcista di William Friedkin o Poltergeist di Tobe Hooper. Cosa sta provando a fare e a dirci in questa singolare prosecuzione di un prodotto di cui egli detiene saldo il controllo creativo, inteso cioè come controllo del franchise, che va ad aggiungersi a quello delle saghe di Saw e di Insidious (mentre in Fast & Furious 7 ha dovuto, certo con professionalità, intelligenza e responsabilità accettare di salire su un treno già in corsa, se possibile per accelerarlo ulteriormente, in tutti i sensi)? Wan cerca di non dissimulare questa relazione di fondo con i prototipi altrui ormai assurti al rango di capolavori e di modelli assoluti. Al contrario la rivendica, la dichiara, la trasforma in una chiave di lettura di un film a sua volta a chiave, che esige un approccio interpretativo. La decodifica del sottotesto di questo The Conjuring – Il caso Enfield coincide con lo sforzo profuso da Lorraine di farsi strada nelle visioni e nei ricordi per afferrare la chiave della minaccia diabolica, scoprendo che il fantasma del vecchio inquilino non è altro che un’entità di copertura. Una cover del Male assoluto. Tutto il film insomma ruota attorno a figure, situazioni o testi che si sovrappongono, e di cui si sottolinea la simulazione del successore rispetto al predecessore. Cantare Can't Help Falling in Love come Elvis Presley è impensabile, tanto quanto realizzare un film come quelli di Friedkin o Hooper, che sono i principali autori di riferimento nella cornice storica e cinematografica degli anni Settanta e Ottanta in cui Wan coerentemente decide di ambientare i suoi The Conjuring. Grosso modo la medesima cornice cui risalgono non soltanto i fatti terribili e misteriosi che spinsero in una presunta casa posseduta da oscure presenze un padre a fare strage dell’intera famiglia, ma il corrispondente film che ne ha tratto ispirazione, Amityville Horror di Stuart Rosenberg. Un film oltretutto sottoposto a rifacimento nel 2005 in quanto a sua volta considerato a ragione un piccolo caposaldo del genere a cavallo tra questi due decenni particolarmente cari a Wang, nato nel 1977. Non è quindi un dettaglio di poco conto che i fatti successivi londinesi, incardinati ugualmente nella cronaca di quel tempo, si ricongiungano trovando la chiave di volta a quelli di Amityville. Siamo sempre di fronte a un’idea coerente di cinema che nel richiamarsi rigidamente alla realtà non esita a innescare un’intrinseca significativa e prioritaria relazione con il fantasma cinematografico retroattivo. E questo sistema di coincidenze viene affidato addirittura non a uno ma a ben due brani musicali emblematici: Can't Help Falling in Love, come si è detto, ma anche London Calling dei Clash, quest’ultimo utilizzato sia perché culturalmente tipico ma anche perché geograficamente topico. Il The Conjuring numero due è perciò un horror filologicamente commemorativo, esplicitamente museale. Con tanto di finale in cui gli oggetti/veicoli della paura vengono repertati e messi sotto vetro. E tanto per non perdere di vista la metafora filmica principale questa volta a essere conservato è uno zootropio, dispositivo antesignano del cinematografo. Senza contare che i coniugi Warren, coppia di detective del paranormale, “in missione per conto di Dio” come gli intramontabili Blues Brothers, vanno a Londra sulla falsariga, per restare nell’ambito delle coincidenze, del lupo mannaro sempre di matrice landisiana. Ma soffermiamoci per un attimo ad analizzare l’indizio su cui abbiamo voluto insistere fin dall’inizio, apparentemente collaterale o frutto di una mera istanza nostalgica. Dove porta la celeberrima canzone di Elvis Presley se non doverosamente sui sentieri del (new) horror, oltretutto passando da un altro autore determinante come John Carpenter? Non va dimenticato che il rapporto tra John Carpenter ed Elvis Presley non si riduce al film televisivo Elvis, il re del rock, contemporaneo di Amityville Horror. Un ulteriore nesso riguarda ad esempio la passione inconfessabile di Carpenter per l’insensata accuratezza proprio di Blue Hawaii: «Il primo grande film hawaiano di Elvis», avrebbe dichiarato in seguito «e tutt’ora il migliore. Angela Lansbury è la madre di Elvis, e vuole che lui entri nell’impresa di famiglia. Elvis vuole fare di testa sua e diventare guida turistica. Ancora adesso mi vengono le lacrime agli occhi quando canta Can’t Help Falling in Love. Elvis alla fine sposa Joan Blackman in una festa di nozze hawaiana senza senso ma molto curata. Il Re al suo meglio» (1). C’è di più: John Carpenter è un autore assai prossimo a Elvis Presley per vari motivi e combinazioni più o meno appariscenti, compresa la curiosa omonimia. In Girls! Girls! Girls! Elvis Presley interpretava un personaggio di nome Ross Carpenter, e nel 1969 Change of Habit di William Graham addirittura uno che si chiamava John Carpenter, il dottor John Carpenter (2). James Wan li avrà visti? Sicuramente sì.
(1) John Carpenter, John Carpenter’s Guilty Pleasures, «Film Comment», vol. 32, n. 5, settembre-ottobre 1996; poi I piaceri colpevoli, in Giulia D’Agnolo Vallan, Roberto Turigliatto (a cura di), John Carpenter, Lindau, Torino 1999, pag. 72. (2) Anton Giulio Mancino, La malinconia del dottor John Carpenter, in arte Elvis Presley, in Renato Venturelli (a cura di), Cinema & Generi 2012, Le Mani, Recco-Genova 2012, pagg. 91-111.