Il contributo che accompagna la recensione di Hacksaw Ridge si apre notando come nel film di Mel Gibson il cartello «È una storia vera» sia collocato all’inizio e non prima dei titoli di coda: Gibson «vuole marcare la narrazione e costringerci ad accettarla per quanto possa sembrare inverosimile». In fondo, nella sua furia predicatrice, Gibson non fa altro che rendere esplicita l’intenzione occultata dietro l’abitudine “discreta” comunemente adottata: che è poi quella di legittimare in qualche modo l’esistenza stessa dell’oggetto filmico, del suo testo e del suo discorso, agganciandola indissolubilmente alla “verità” costituita dai “fatti”. Ceci n’est pas un film, retropensiero paradossalmente indirizzato ad attirare spettatori paganti ad assisterne la proiezione. Come se non si sapesse che i fatti esistono soltanto nella loro narrazione. Come, in ultima analisi, è della Storia quella con la S maiuscola – questione di cui già nella Grecia classica si era consapevoli, considerata l’etimologia della parola.
Certo che la mossa di Gibson, nel suo piccolo, scompagina le carte costringendo gli spettatori (almeno quelli più attenti) a porsi delle domande non di poco conto: è, di fatto, un’operazione teorica tutt’altro che trascurabile (che egli ne sia stato cosciente o no), poiché finisce per riposizionare le tessere della questione nell’ordine corretto, mostrando così la sostanza ideologica di una prassi che, lungi dal fondarsi su intenti estetici, è sempre stata motivata da urgenze principalmente economiche. Anche se, col ripetersi ad libitum della mossa, sull’intenzione ha finito per prevalere un effetto anestetizzante.
Tre gradi di separazione dividono Silence dai fatti storici cui il racconto si riferisce: il primo è quello che separa gli eventi – sostanzialmente verificatisi – dalla narrazione romanzesca che ne ha fatto End? Sh?saku; il secondo sta fra il romanzo e la sua prima versione cinematografica di Shinoda Masahiro; il terzo, infine, quello che conduce alla rilettura operata da Martin Scorsese di cui ci occupiamo in questo numero della rivista. Un tragitto piuttosto lungo, che mette il lavoro di Scorsese – a questo punto del tutto calato nell’universo finzionale – al riparo da ogni riferimento “a fatti realmente accaduti”. Scorsese si può permettere dunque di procedere spedito lungo il suo personalissimo percorso al termine del quale finalmente ci consegna non più, banalmente, un film ma un intenso e compiuto autodafè cinematografico.
I fatti accadono, invece, platealmente e senza alcuna sceneggiatura preliminare a fare da intermediaria, in Austerlitz: gesti e sguardi al limite della sopportabilità anche perché sappiamo intimamente che potrebbero essere i nostri; Austerlitz mostra ciò che si ripete quotidianamente, in corto circuito con gli oggetti per il cui tramite si è consumato realmente l’orrore. La sua funzione di medium è tutta nell’occhio impassibile con cui accoglie e pone in simbiosi i fantasmi del passato con quelli dell’oggi. La visione del sabba, non soltanto un film.