I segni non mancano: sono tempi in cui ricorre l’abitudine di valutare la qualità di un film sulla base della sua capacità di sollecitare le lacrime dello spettatore insieme a (qualche volta a prescindere da) quella di indurlo a un’analisi intellettuale, estetica, morale. Vedere un film di cui si riconoscano qualità importanti sul piano linguistico, geniali intuizioni nell’apparato formale, l’invito stimolante a riconsiderare il contesto nel quale la storia procede, pare non basti più. O comunque, sì, tutti elementi a suo favore. Ma se non si piange… Se non si prova almeno un qualche struggimento emotivo… Se non c’è niente di tutto ciò, viene a mancare un quid determinante. Ora, che il cinema sia geneticamente, per così dire, portatore sano di emotività, declinata in un ricco repertorio di sfumature del sentimento e degli stati d’animo è sicuramente un fatto. Ma sembrerebbe azzardato farne una condizione in grado di determinare la differenza tra l’opera di grande interesse e il film di ordinaria amministrazione.
Su questo numero di «Cineforum» sono almeno tre i titoli che permettono di affermare l’opportunità di una salutare prudenza a proposito della lacrima risolutiva. Jackie, per cominciare. Quasi provocatoriamente fondato su un evento che, per sua sostanza e per le modalità spettacolari con cui si presentò nel suo stesso farsi, seppe insieme a pochi altri – a torto o a ragione – segnare emotivamente la storia del Novecento, il film di Larraín ne disinnesca la carica rimodulandone la rappresentazione in una prospettiva cubista straniante quanto rivelatrice. Vi presento Toni Erdmann, invece, affronta e vince la sua sfida con il materiale melodrammatico di cui è sostanziata la vicenda (la ricerca di una possibilità residua di empatia nel naufragio del rapporto padre-figlia), filtrandolo per mezzo del ricorso alla maschera, alla deformazione clownesca, ma anche alla contestualizzazione storica della donna nel dispositivo lavoro/potere, capace di definire, raffreddandola, la dinamica delle relazioni con gli altri soggetti che questo è in grado di generare. Per non dire, infine, di Manchester by the Sea, che mostra tutta la forza delle scelte di regia su cui è costruito, muovendosi rischiosamente nel mare in tempesta dei sentimenti, delle colpe e delle redenzioni impossibili, riuscendo a evitare di misura gli scogli più insidiosi e a condurre così in porto, consapevolmente, senza spargimento di lacrime una storia che più lacrimosa – in potenza – non sarebbe.
Non voglio sembrarvi un senza cuore. Guardando Il mucchio selvaggio, incappo sempre in un paio di passaggi dove la lacrima è sempre in agguato. Ma se dovessi indicare il punctum di questo film (me lo passate il termine “capolavoro”?) non lo cercherei in nessuno di quei due momenti, quanto piuttosto in quello della caduta rovinosa di cavalli e cavalieri tra le sabbie del deserto. Riflessione metacinematografica spettacolare, ironica, crudele, dalla quale sono sempre uscito a ciglio asciutto.