Al netto delle valutazioni sulla “qualità” dei singoli film e del quadro generale della proposta che ne è derivata, vale la pena di fare qualche considerazione a latere su un aspetto dell’edizione 2017 del Festival di Cannes che è stato al centro di una qualche attenzione preliminare, annegata però poi nel necessario lavorìo critico successivo. Parliamo della contaminazione portata da titoli prodotti per la fruizione domestica e/o individuale in una manifestazione da sempre riservata (come avviene, del resto, in tutti i festival o mostre “del cinema”) a opere destinate alla proiezione essere in sala. Che poi quelle opere, nelle sale, ci arrivino davvero – almeno per quanto riguarda la distribuzione italiana – è un’altra storia, ma qui ci occupiamo evidentemente del principio generale…
Il riferimento è ovviamente a Okja e a The Meyerowitz Stories, ma non solo. La presentazione dei primi due episodi del ritorno di Twin Peaks ha costituito un capitolo a parte nel catalogo festivaliero in tutti i sensi ed è destinato a essere oggetto di letture, analisi, approfondimenti, interpretazioni (anche su questa rivista, ovviamente; ne riparleremo) quanto (e più di) un film vero e proprio.
A proposito di Okja, in particolare, che nel frattempo è stato messo a disposizione sulla piattaforma Netflix come da programma, rimandiamo chi se la fosse lasciata sfuggire alla recensione del nostro Leo Gandini su cineforum.it, che nelle giornate del festival ne scriveva – riflettendo sul parallelo tra il film ogm e la creatura ogm che ne è protagonista: «Metafora perfetta per il panorama mediale contemporaneo, dove l’ibrido fra cinema e tv destinato alla visione in divano genera spesso fenomeni di culto e passione che il cinema da sala e grande schermo può solo invidiare». Come a dire che di questi tempi essere festival/mostra di cinema non esime dall’accogliere in programma opere concepite e prodotte per fruizioni su altri media. Anzi. D’altra parte a Venezia tre anni fa non era stato presentato fuori concorso Olive Kitteridge?
La modulazione in atto – e tutt’altro che conclusa – del paesaggio mediale in cui consumare l’atto della visione porta piuttosto a ritenere in qualche misura necessario un coinvolgimento anche delle “vetrine” storiche nell’esplorazione di questi nuovi territori: rifugiarsi intimoriti dietro un “hic sunt leones” non serve certo ad ampliare la conoscenza delle cose. Mi ricordo una conversazione avuta con Ermanno Olmi sul finire degli Ottanta, nel pieno della polemica allora in atto “vhs sì/vhs no”, nel corso della quale egli manifestò la sua apertura alla nuova tecnologia che avvicinava per tutti la modalità di visione di un film a quella della lettura di un libro, vedendovi una forma di emancipazione intellettuale, in qualche modo. Come dire – tornando a oggi – che la potenza dell’immagine è anche negli occhi e nel cervello di chi guarda, non soltanto nelle dimensioni di uno schermo.
Per un malaugurato errore, l'intervista a Cristi Puiu pubblicata a pagina 90 del numero 565 della rivista è stata attribuita a Linda Magnoni anziché a Saverio Francesco Marzaduri, come invece corretto. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.