Nelle note di regia allegate al pressbook del film, il regista Roberto De Paolis, classe 1980, utilizza un termine che non si sentiva da molti anni nel mondo del cinema: la ricerca sul campo. Termine divenuto ondivago, ma che fino a qualche tempo fa rappresentava qualcosa di certo, di sicuro di intangibile. Andare dove accadono le cose e filmarle, come se la macchina da presa fosse uno strumento d’intervento, un’arma. Una concezione oltranzista, fanatica del cinema che ha rapito generazioni di cineasti o aspiranti tali ma di cui da qualche tempo non si sentiva più parlare, come se fosse divenuta un reperto, un cimelio, qualcosa di buono al massimo per i noiosi convegni di noiosi accademici che con decenni di ritardo cercano ogni volta di rilegittimare l’ovvio.
De Paolis torna a servirsi dell’indagine sul campo per raccontare e comprendere come si svolge oggi la vita in una delle tante, sterminate periferie di una capitale diventata nel corso di questi ultimi anni sempre più grande, come un mostro di cui nessuno riesce più a calcolare il peso (gli abitanti), le malattie (i problemi), le disfunzioni. Come spesso capita in questo tipo di cinema gli elementi convenzionali della narrazione sono ridotti all’essenziale. A partire dai personaggi. In primissimo piano ci sono Stefano e Agnese, due giovani agli antipodi. Vivono nella stessa realtà ma non potrebbero essere più distanti, sia per il presente che per il passato che li connota. Stefano, venticinque anni, è una emanazione della strada, del “fuori”, si capisce nel corso del film che ha conosciuto la droga, le rapine, le amicizie violente. Ad un certo punto deve aver capito di essere un altro tipo di persona rispetto al suo amico Alessio, un piccolo gradasso di periferia dedito allo spaccio e alla prepotenza. Ha cercato e trovato lavoro in un centro commerciale, un non-luogo per i sociologi à la page che albergano nelle pagine dei nostri giornali e speculano sul nulla vendendolo a caro prezzo.
Ma per chi conosce o vive nelle periferie sa che, purtroppo, oggi i centri commerciali sono gli unici spazi sociali in cui potersi incontrare, in cui poter conoscere qualcuno al di là della propria ristretta di conoscenze familiari o amicali. In più è un luogo protetto, sorvegliato, dove c’è una sorveglianza costante, elemento che rassicura a fronte degli altri spazi delle periferie, stradoni, campi aperti, luoghi dove l’incognita diventa possibilità di pericolo. Ma è anche un luogo dove vengono strane idee, ad Agnese quella di rubare un telefonino perché il suo la madre glielo ha sequestrato. Stefano la scopre e la rincorre, ma una volta braccata la lascia andare via e per di più con la refurtiva. Un gesto inspiegabile e incauto che gli costa il lavoro. Licenziato, solo grazie all’aiuto di un amico riesce a trovare un nuovo impiego, questa volta ben più rischioso dell’altro. Deve fare la guardia al parcheggio di un supermercato occupato per metà da un campo rom. Non riesce a capire come impiegare il tempo in quella distesa di asfalto infiammata dal sole o battuta dalla pioggia, senza un tavolo, un guardaroba, un posto dove potersi sedere eccetera.
Presto scopriamo in Agnese il suo opposto. Lei viceversa non conosce minimamente quello che succede fuori. Ha rubato il telefonino perché la madre l’aveva scoperta mentre di mandava messaggi sessualmente espliciti con un suo compagno di scuola. Ma la verità è che non sa niente della vita e tantomeno del sesso. Tutte le cose che sa, al contrario di Stefano, le sono state raccontate, raccomandate, dalla madre, dal prete, il sesso, il matrimonio, la vita tra due persone diverse. Frequenta un gruppo di suoi coetanei che fa vita di parrocchia, canta, si diverte, organizza iniziative di solidarietà con gli immigrati e i rom. Agnese ascolta, chiede notizie sul significato dei valori che per gli altri sono invece insindacabili, ma a differenza loro si mostra sempre più dubbiosa sulla sua vita, sulla direzione verso cui sta andando. Il suo corpo è totalmente immerso nella Fede cristiana, ma i suoi sensi, la sua mente sperano di emigrare altrove, per il momento verso qualcosa di indefinito, ma poi, domani, chissà?
La madre, forse a causa delle passate disavventure con il padre di Agnese, è molto possessiva nei suoi confronti. Crede in un modo fanatico nella religione e letteralmente obbliga, o vorrebbe obbligare, Agnese ad arrivare vergine al matrimonio. Questa però è solo la descrizione superficiale di due personaggi come tanti, una fotografia scattata nella fase iniziale di questo film. Ma con il passare del tempo il fuori e il dentro, le due matrici rappresentate da Stefano e Agnese, iniziano ad apparirci molto più complesse, sfaccettate e anche contradditorie di quanto la descrizione fatta sopra possa far pensare. Lentamente ci si accorge che Stefano, il ragazzo cresciuto in strada, che ancora così giovane ha dovuto imparare a guadagnarsi da vivere in modo da poter scappare da una famiglia incapace di dargli accudimento, affetto, sicurezza, è cresciuto in fretta, ha dovuto imparare a credere solo nelle sue forze, senza poter fare affidamento su nessuno.
Solo, in mezzo a quel parcheggio, senza avere nulla da fare se non osservare la vita quotidiana dei rom e tenere a bada per quanto possibile i loro tentativi di trasgredire le regole e invadere il parcheggio, magari per giocare a pallone, Stefano continua a pensare a un modo per riempire quel vuoto che sente ormai distintamente nel suo cuore. Sente crescergli l’odio verso quella gente, più volte è ad un passo dallo scontro fisico, ma nonostante ciò continua lo stesso a cercare qualcosa d’altro dalla vita. Stessa dinamica potrebbe dirsi per Agnese. Chiusa in quella dimensione protetta non dovrebbe sentire bisogno di altro che di quello che può trovare lì, amici, svago, magari l’amore. E invece si sente stranamente afferrata da quel ragazzo che un giorno l’ha rincorsa e poi l’ha lasciata andare.
Fuori, dentro, vuoto, pieno, questo film estremamente concreto, apparentemente cronachistico, cela sotto la superficie un gioco di elementi essenziali, primigeni. L’estremo realismo che lo connota non impedisce a De Paolis di fare una riflessione sulle diverse e per niente concilianti tensioni che animano due persone giovani in una grande città dei nostri tempi. E sul modo tumultuoso ma vitale con cui queste possono mescolarsi fra di loro. Stefano ed Agnese tornano ad incontrarsi dopo il furto, quest’ultima sta andando con la madre a fare un po’ di volontariato in quel campo rom visto da Stefano tutti i minuti, tutte le ore e tutti i giorni in cui lavora come il suo unico problema. Sanno dunque della differenza che li riguarda. Sin dal principio sono consapevoli di far parte di due universi opposti. Eppure qualcosa li attrae l’un altro, qualcosa che ha a che fare con il “non sapere”, l’insufficienza di prove sull’esistenza di qualcosa d’altro da sé. È così che iniziano a cercarsi, ogni volta annusandosi per poi fuggire via, per poi cercarsi di nuovo e così via.
Siamo nella Roma di questi anni, certo, realtà che probabilmente De Paolis che conosce meglio di molte altre, grazie all’indagine… Ma quante altre sono le periferie di questo mondo divenuto improvvisamente senza dogane, ma dove però i confini si sono mentre divenivano invisibili si sono anche moltiplicati, due segnali che hanno complicato in modo incredibile la nostra vita? I confini che sentiamo fra le persone sono le frazioni che sminuzzano la nostra esistenza rendendoci incapaci di pensare a qualcosa di importante, di generale, ma sempre alle prese con i problemi piccoli, piccolissimi dell’ordinaria sopravvivenza. L’incontro tra Stefano e Agnese non è catartico, non è la storia di una redenzione vicendevole, ma di un percorso di conoscenza, iniziato in un pomeriggio fuori da un supermercato, con una folle corsa a perdifiato. La guardia e la ladra. La guardia che rinuncia ad essere guardia, a svolgere il suo ruolo e a punire e la ladra che dice di non essere una ladra, di non averlo fatto apposta. Ma allora perché l’ha fatto? È la prima scena di questo film ma poi, alla fine, ci si rende conto che è già davvero tutto qui.