CINEFORUM / 569

Cartoline da Savannah

C’è un luogo, una città, che oscilla indeciso tra l’immagine scintillante che ama avere di sé, esibendola sfacciatamente a chi la guarda da fuori, e la materia oscura che la sostanzia. Una città a prima vista tollerante nei confronti di usi e costumi, di stili di vita diversi, ma anche dedita allo sport preferito e rischioso del pettegolezzo. Il potere vi è riconosciuto e adorato, e chi lo detiene può danzare pericolosamente senza rete tra l’ammirazione e la gelosia dei suoi cortigiani, entrambe sincere. Una città che distribuisce i suoi riti sociali tra giorno e notte, mescolando gli intrighi con le effusioni più plateali, i gesti quotidiani con la sospensione dell’incredulità, il reale con il surreale.

C’è, in questo luogo, un individuo che emana luce, una star, un parvenu al culmine della sua popolarità e del suo potere. Si ritiene onnipotente e in qualche modo lo è: venerato per la sua ricchezza e per la munificenza con cui concede il suo regno all’altrui fame di divertimento. Il suo potere è tanto da permettergli di (anzi, da spingerlo a) sfidare anche la legge di gravità del perbenismo, della quale sembra avere addirittura il controllo e la possibilità di piegarla senza difficoltà ad ogni suo desiderio. Fino a quando un “incidente” rimette tutto in discussione.

C’è la stampa: un giornalista che vorrebbe fare il giornalista, ma ha finito per legarsi troppo all’uomo onnipotente. E a questo luogo dal fascino bizzarro. Scoprirà che la deontologia professionale non sempre può permettergli di districarsi tra i misteri più paurosi e i colpi di scena più ridicoli. Venuto da lontano per ripartire dopo due giorni, resterà qui e metterà aeree radici. La salvezza arriva a volte seguendo vie tortuose…

Ci sono quadri che ne nascondono altri, cani fantasma e mosconi al guinzaglio; c’è una sacerdotessa dell’occulto che celebra la coabitazione proficua dei vivi e dei morti; ci sono spiriti vendicativi capaci di trasformare una miserevole agonia in un’epifania cinematografica. C’è la ricerca della verità che sfuma in un irridente ma non troppo «Vecchio mio, la verità, come l’arte, è nell’occhio di chi guarda. Tu credi a quello che vuoi e io credo a quello che so».

Quel luogo che potrebbe chiamarsi Hollywood si chiama Savannah. Quel nouveau riche onnipotente, omosessuale dissoluto, fragile libertino si chiama Jim Williams e ha il volto e il corpo di Kevin Spacey. Questa vicenda che passo dopo passo arriva obliquamente ma inequivocabilmente a dirci qualcosa su certi effetti nefasti della curiosità e delle aspettative morbose ad essa legate è stata narrata vent’anni fa da Clint Eastwood in un film – stravagante, spiazzante, inaspettatamente profetico – dal titolo Mezzanotte nel giardino del bene e del male.