«Questo è il volto della vendetta ebrea!», urlava Shosanna Dreyfus/Mélanie Laurent nel finale di Bastardi senza gloria di Tarantino; qui invece di urlato non c’è niente, anzi. Tutto è raccontato di sottrazione, sottovoce, addirittura quasi in maniera indistinta e fuori fuoco. Così come sfocato è il protagonista Norman Oppenheimer, uno spettro, un’entità astratta che si aggira tra i palazzi del potere di New York e che sembra farsi in quattro per chiunque gli capiti a tiro, nel tentativo (utopistico?) di ottenere una gratificazione personale. Parente prossimo dell’ebreo di corte di tanta letteratura classica, da Shakespeare a Joyce (all’origine del progetto di Joseph Cedar pare ci fosse un biopic impossibile su Veit Harlan, regista di quel famigerato Süss l’ebreo incentrato sulla figura del banchiere Joseph Süß Oppenheimer), quello amato e odiato, perseguito ma anche invocato, desiderato, invidiato.
L’Oppenheimer di Richard Gere è l’uomo qualunque che si mimetizza tra la folla della Grande Mela, sempre impeccabilmente vestito e attaccato allo smartphone (con l’auricolare però), sempre in movimento, sempre alla ricerca di qualcuno verso cui prostrarsi servilmente (letteralmente: si veda la sequenza delle scarpe). L’occasione giusta sembra capitargli a tiro quando incontra un promettente politico israeliano che di lì a qualche anno diventerà primo ministro: potrebbe essere il suo vero punto di svolta per venire accettato nella società che conta e per abbandonare finalmente i bassifondi, per prendere una rivalsa nei confronti di tutti quei potenti che gli hanno chiuso le porte in faccia.
Ma alla fine, chi è veramente Norman? Un faccendiere, un uomo d’affari, un parassita: ma è un altruista o un bieco approfittatore? Si muove alla velocità della luce tra gli alti e i bassi della metropoli, cerca di intrufolarsi alle cene di gala ma poi è costretto a rifugiarsi nelle sinagoghe; è un fantasma, che Cedar decide di non mettere mai completamente a fuoco. Perché intorno a lui ci sono le luci sfavillanti della città e i suoi riflessi, i suoi vetri, le sue superfici lucide che impediscono la visione corretta delle cose. L’ostentazione di un’identità passa attraverso l’inventarsi di sana pianta un passato che non esiste; e poi le strette di mano, le presentazioni, il passaggio costante di un biglietto da visita che da solo non può essere garanzia di certezza, ma ci si prova ugualmente.
È la tragedia degli sconfitti, che si muovono nelle zone d’ombra della Storia perché condannati a rimanere nell’ombra: una sorta di il controcampo dei palazzi del potere, che la scelta di un Richard Gere ormai lontano dai ruoli di sex symbol sembra amplificare a dismisura. Manca forse la capacità (o l’intenzione) di rappresentare fino in fondo il divario tra chi può e chi non può, tra vincitori e vinti, lasciando così che la portata tragica della politica dei numeri e della finanza, con tutte le sue ricadute sul capitale umano, rimanga una minaccia indistinta sullo sfondo. Esattamente come il personaggio di Norman, ambiguo ed equivoco fino alla fine.