«A chi importa Godard nel 2017?», ammette Michel Hazanavicius mentre è intervistato a Cannes, lo scorso maggio. E semplicemente quanti sanno ancora chi è Jean-Luc Godard, perché c’è da scommettere che tra gli spettatori del multisala dove sarà proiettato Il mio Godard, vedendo la locandina, tanti si chiederanno «Ma chi è?», non sapendo che il Godard in questione non è solo quello di Hazanavicius ma un po’ quello di tutti: un regista che ha elaborato un linguaggio innovativo e un pensiero influente sull’arte che li divertirà poco dopo. Una figura di spicco della cosidetta “modernità”, benché Godard non accetti una storia dell’estetica cinematografica così nitida e lineare. Insomma ci auguriamo che qualche cinefilo altruista sarà sempre presente per informare il pubblico sui dettagli di questa “storia”.
Non è l’ingiustizia dell’ignoranza che ha spinto Hazanavicius a realizzare il film, quanto un amore postmoderno della ricreazione di un’epoca sulla quale si ironizza gentilmente. Il regista premiato dall’Oscar per The Artist nel 2012 non è alle prime armi in termine di pastiche. Dopo essersi confrontato con successo al passaggio dal cinema muto al cinema parlante, e con molto meno successo al film di guerra umanitario in The Search (2014), ora gira un film “à la Godard” con Godard protagonista. Ovvero un attore che recita la sua parte. Un Louis Garrel convincente del resto, grazie a un restyling completo con la calvizie nascente e la dizione straniante (almeno nella versione originale) del regista di origine svizzera, ma senza cadere neanche nella trappola della pura imitazione. Un interprete figlio d’arte (suo padre Philippe Garrel è uno dei maggiori rappresentanti francesi del cinema d’auteur ancora vivi), abbonato ai ruoli insoliti (ricordiamo The Dreamers di Bertolucci, nel 2003) e a un cinema confidenziale, più riflessivo che spettacolare. Insomma un attore un po’ godardiano, senza essere però il nuovo Jean-Pierre Léaud (1).
Hazanavicius si ispira a due romanzi (Une année studieuse, 2012; Un an après, 2015) di Anne Wiazemsky, purtroppo scomparsa il 5 ottobre scorso. Oltre alla scrittura e a diverse parti in film impegnati, l’attrice rimane celebre per essere stata la compagna di Godard a cavallo tra il 1967 e il 1969. Storia d’amore tormentata che i due libri raccontano con malinconia e sottile intimismo, che vede la Wiazemsky, allora studentessa ventenne, vivere le sue prime esperienze sentimentali e attoriali con Godard nello stesso appartamento dove girano insieme La cinese. Evoca con malizia come la mattina passavano immediatamente dalla stanza da letto al set e, più tardi, alle strade in ebollizione e alle manifestazioni. L’idillio, anzi, il matrimonio (2), finisce pressapoco quando Godard si “smarrisce” nell’esperienza del collettivo Dziga Vertov, un tentativo di cinema plurale (tutta la troupe dirige il film) e militante. Nel frattempo Anne Wiazemsky si “esilia” periodicamente in Italia, gira con Pasolini (Teorema e Porcile), Carmelo Bene (Capricci) e Marco Ferreri (Il seme dell’uomo).
L’ex musa di Godard rifiuta in un primo tempo di concedere i diritti dei suoi romanzi per un loro adattamento allo schermo, ma inaspettatamente si lascia convincere quando Hazanavicius le dichiara che la sua rottura con Godard è buffa e che potrebbe fare un’ottima commedia. È vero che Godard è diventato nell’immaginario cinefilo un “personaggio”, una specie di eremita colto, un sinistroide dall’ironia feroce, che ama ricorrere ai giochi di parole e alle figure di stile. Un mito che Hazanavicius trasforma facilmente in un personaggio burlesco, in particolare con la gag ricorrente delle scarpe scivolose e degli occhiali rotti. Di fatto, ridiamo di più ma riflettiamo di meno. La Wiazemsky, interpretata da una Stacy Martin soft e atona (lontana dal Nymphomaniac di Lars von Trier), è troppo ridotta al ruolo di voce narrante, mentre con emozioni più forti e singolari avrebbe potuto controbilanciare il monopolio intellettuale del fascinoso marito.
La ricerca archeologica del linguaggio cinematografico “perduto” essendo una specificità di Hazanavicius, possiamo rimpiangere che Il mio Godard non sia più memore delle specificità del comico godardiano, ossia «il dubbio e la stupefazione», secondo Joachim Lepastier (3). Anche la restituzione dei codici della “modernità cinematografica” appare ben saggia e limitata ad alcuni occhiolini. Invece di sperimentare nella forma, o di partire dall’innovazione formale per riformulare un universo in qualche modo personale (come in The Artist), assistiamo qui a un recupero confortevole e artificiale di certi spunti offerti dall’opera del primo Godard: sguardi nell’obiettivo, deificazione della donna, citazione delle colonne sonore, immagine in negativo, grana della pellicola, titoli didattici, insomma poche cose turbano lo spettatore del Ventunesimo secolo che ne ha viste molte altre, magari proprio durante il quarto d’ora di réclame che ha preceduto la proiezione, giacché la pubblicità ama da tempo sfruttare l’aura dei miti e addomesticare le forme sperimentali per rivolgersi al consumatore. La ricostituzione estetica poteva essere più aggressiva e addirittura attualizzata con saturazioni, interruzioni, deturpazioni di ogni tipo.
Il film di Hazanavicius ha almeno il coraggio di confrontarsi con quell’epoca di litigi, di rotture e di transizione che fu il Sessantotto per Godard, ma se il ritratto dell’artista nella società è riuscito, lo sguardo dell’artista sulla società sembra filmato come in un acquario: come se, oggi e nel cinema di oggi, non respirassimo molto di quell’effervescenza politica e di quel desiderio d’invenzione e di rifondazione. «Il cinema non è molto importante nella vita di tante persone», constata con rassegnazione Hazanavicius, ma minimizzare l’importanza e l’impatto che può anche avere sarebbe dimenticare la forza di riflessione già di-mostrata dai cineasti, poiché «solo il cinema» – dice Godard – è stato il testimone espressivo dei grandi movimenti storici del Secolo scorso (4). Perciò «gli dobbiamo molto», aggiunge Hazanavicius parlando del regista della Nouvelle Vague, anche se non sappiamo bene cosa. L’audacia? La libertà? Senza essere pessimisti, al contrario, chiederemo sempre ai registi emergenti e confermati le prove di quest’eredità.
Nel 1881, Arthur Meyer, promotore del Musée Grévin (il famoso museo delle cere di Parigi) e direttore di un quotidiano, intendeva dare la possibilità ai suoi lettori di “mettere un volto” sulle personalità evocate nel suo giornale (all’epoca le fotografie erano rarissime nella stampa). Alla fine è questo il gesto che salva il film di Hazanavicius: identificare e “mantenere in vita” un regista e la sua poetica nel circuito pubblico delle sale cinematografiche, seppur facendo la caricatura a certi aspetti della sua personalità e inventandone altri. Riaccendere la lanterna magica, alla stessa stregua di Scorsese quando spolverò la figura di Méliès in Hugo Cabret (2012) e rimise i cortometraggi delle origini sotto le luci della ribalta. Il gesto rimane comunque criticabile e perfettibile, ma dobbiamo anche essergliene grati per l’occasione dataci di riparlare degli innovatori più o meno spariti dello/dallo schermo. Non è necessario conoscere l’opera di Godard per vedere Il mio Godard, ma potrebbe essere necessario vederlo per prendere coscienza non tanto di quello che è stato perso, bensì di quello che dobbiamo ritrovare.