Molta violenza in questa tornata invernale, sulle pagine di «Cineforum». Esplicita, esplosiva, sottile, occulta. Razziale, poliziesca, malavitosa, generazionale, familiare, di classe. Davvero una bella panoramica che mette a fuoco senza soluzione di continuità vicende individuali e contesti storici collettivi: dalla Grande guerra all’attualità, con tappe significative negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, e ad ampio raggio geografico – tutti insieme appassionatamente Italia, USA, Russia, Ungheria, Francia, Libano. Una violenza che non sembra offrire vie di fuga o speranze di ricomposizione; se non sotto forma di invocazione morale oppure formulate in maniera talmente aperta e ambigua da ammiccare piuttosto al proprio contrario.
Del resto, fare i conti senza ipocrisie con la violenza, con il suo fascino oscuro, sembra essere stato uno dei propositi principali del cinema fino dalle origini. Il piano finale di The Great Train Robbery (1903, di Edwin S. Porter) non si presenta soltanto come una provocazione gratuita rivolta al voyeurismo già intuito dello spettatore, ma è anche l’esplicitazione di un’autoprofezia, enuncia l’evidenza di una missione: quale arte meglio di quella nata con il Ventesimo secolo avrebbe potuto misurarsi con esso – per contenuti e linguaggio –, con la trama feroce che ne sarebbe stata ossessione e senso nascosto, oscura colpa e motivo di autoesaltazione? Nel conflitto diffuso tra richiamo alla civiltà e pulsione di morte, questi ultimi cento anni sono stati l’arena di una partita senza remissione, nel fuoco della quale i singoli hanno tratto giustificazione della loro “follia” dalla sua espressione collettiva e viceversa. Un rimpallo grottesco, non privo di momenti ameni.
La responsabilità di chi – in qualsiasi maniera e proporzione – detiene ed esercita potere sull’altro è stata ed è tuttora in tutto ciò enorme. La grandezza e l’esemplarità di un film come Detroit va vista dunque proprio nell’aver voluto e saputo rappresentare in brutale sineddoche una crudeltà che si espande ben oltre le pareti delle stanze in cui la vicenda in sé la racconta. Per tale motivo, nella scelta etica di chi, dopo essere sopravvissuto alla carneficina, decide di cambiare vita come fosse un debito da pagare, non si profila alcun piano di salvezza ma soltanto, e giustamente, la testimonianza di una raggiunta autocoscienza. Che di questi tempi sia stata una donna a mettere in scena una storia così forte e necessaria non fa alcuna meraviglia, tanto più se si chiama Kathryn Bigelow. Così come non fa meraviglia se l’establishment cinematografico ha preferito glissare di fronte a tanta lucidità intellettuale, cercando di attutire il colpo nell’indifferenza.