CINEFORUM / 572

Tutta la squadra dell’editrice

A una prima visione, The Post colpisce subito per la sua ricostruzione storica e per il senso di déjà vu che produce. Il fantasma di Tutti gli uomini del presidente (All the President's Men, 1976), film di Alan J. Pakula interpretato da Robert Redford e Dustin Hoffman e incentrato sullo scandalo Watergate, accompagna inevitabilmente lo spettatore che lo conosca nella visione. Del resto, entrambi parlano di giornalisti che devono fronteggiare la politica (e nello specifico la stessa figura di Richard Nixon) in nome della libertà di stampa e il quotidiano protagonista è il medesimo, «The Washington Post». Uno potrebbe facilmente pensare che Spielberg – che realizzò Schindler's List (id., 1993) in bianco e nero perché la sua memoria circa lo sterminio degli ebrei era fatta delle immagini girate al momento della liberazione dei campi di concentramento dagli eserciti liberatori – abbia automaticamente filtrato la sua percezione del momento storico e degli eventi che ha scelto di raccontare attraverso i film che ha visto realizzati in quegli anni, e primo fra tutti il succitato. Del resto, The Post finisce proprio nel momento in cui quello inizia e sarebbe facile considerarlo un prequel.

Una seconda visione cancella completamente questa sensazione e mette, invece, in piena luce tutta la profondità di un’opera molto personale e attuale, i cui lati più essenziali sono comunque subito percepibili. In essa, Spielberg adotta due stili che permettono al racconto di svilupparsi su altrettanti percorsi paralleli fino a incrociarsi poco prima del finale. A camminare su di questi sono rispettivamente il direttore del quotidiano, Ben Bradlee (Tom Hanks), e la sua editrice, Kay Graham (Meryl Streep). Attorno al primo ruota il tema costantemente attuale concernente gli obblighi della stampa nei confronti dei suoi lettori e i rapporti di essa con la politica, ed è quello in cui si percepisce lo Spielberg più “storyteller”, il cantore di avventure emozionanti in cui il vero bene risulta sempre quello perseguito con l’animo più puro. In questo senso, Bradlee e i suoi collaboratori – che si danno un gran daffare affinché il loro giornale pubblichi i rapporti segreti che sono stati loro passati circa l’andamento della guerra in Vietnam scritti da Robert McNamara, Segretario della Difesa dei Presidenti Kennedy e Johnson – si avvicinano molto, per lo spirito con cui portano avanti la loro azione, ai tanti preadolescenti che popolano da sempre i film del regista e alla loro capacità di trovarsi passionalmente coinvolti in storie incredibili. L’impresa della squadra di giornalisti, del resto, non ha per obiettivo la sola diffusione di una verità, ma il riappropriarsi di un Paese tradito dai suoi politici per oltre vent’anni (come emerse dai rapporti, sin dalla presidenza di Harry Truman) e dei suoi valori, nonché la salvezza materiale di tanti giovani che ancora stavano combattendo una guerra considerata fallimentare da coloro stessi che la propugnavano. Nel raccontarla, Spielberg vi infonde, come gli riesce consuetamente bene, entusiasmo coinvolgente, toccante senso di giustizia e sincero idealismo, strumenti attraverso i quali propone agli Stati Uniti la sua strada per affrontare l’epoca delle fake news (urgenza sentita talmente impellente da averlo spinto a realizzare il tutto interrompendo la lavorazione del fantasmagorico Ready Player One, di imminente uscita ma filmato precedentemente). In ogni modo, questo è solo uno dei due rami del film, ed è il secondario. Protagonista principale di The Post è Kay Graham.

È sulla donna, infatti, che finisce per reggersi il peso unico della decisione finale, pubblicare o meno, che potrà portare a una presa di coscienza collettiva oppure al fallimento del giornale, con danni per le vite di chi vi scrive e lavora e per le tasche dei suoi azionisti. Tuttavia, è già la scelta la sua vittoria. L’editrice, infatti, finisce per diventare nel corso del film, più che paladina della stampa, modello profondo di emancipazione femminile che, da soggetto subordinato, si impone come individuo protagonista, e nel descrivere questa trasformazione The Post sviluppa il suo lato più drammatico. Suicidatosi il marito a cui il proprio padre, essendo lei donna, aveva affidato la proprietà del quotidiano, la Graham si è trovata a portare avanti da sola l’impresa di famiglia insieme con la crescita dei figli, ai quali ha cercato sempre di dare materna protezione e consapevolezza. Sviluppando una sceneggiatura di Liz Hannah perfezionata da Josh Singer (premio Oscar per l’analogamente giornalistico Il caso Spotlight [Spotlight, 2015]), Spielberg delinea un personaggio femminile completo ed estremamente complesso, che per tutta la vita ha percepito come naturale il fatto che le scelte e i ruoli dirigenziali fossero appannaggio degli uomini e che improvvisamente si trova, sola, nel mondo di questi, col costante rischio di finire schiacciata. La costruzione di diversi momenti mette bene in risalto quanto aliena sia questa figura e quanto forte essa debba essere per non soccombere ai maschi, facendo ripensare alla Clarice Starling di Il silenzio degli innocenti (Silence of the Lambs, 1991), accerchiata in ogni modo da predatori sempre pronti a ridimensionare e svilire il suo operato e la stessa figura. Perseguitata da fantasmi a cui crede di dover rendere conto, Kay riesce a sopravvivere alla sfida, e vincerla, ritrovandosi finalmente anche circondata da donne decise a prenderla a modello per fare in modo che la società che le ha sempre escluse incominci a cambiare.

In quadri come questo di cui stiamo parlando emerge lo stile più “da storico” di Spielberg, capace di rendere epica la semplice discesa da una scalinata e al contempo immediatamente chiara l’importanza reale della figura che si muove sullo schermo. Per arrivare a tale esito di ampio respiro, è stato forte, come dicevamo, il carico che la donna ha dovuto sopportare: si pensi solo alla “telefonata a cinque” in cui si ritrova strattonata da uomini che cercano di influenzare la sua scelta in ogni modo mentre la macchina da presa le volteggia sopra la testa, rendendo percepibile il suo stato di pressione e indecisione. Solo un’altra donna – la propria moglie – riesce a far aprire gli occhi a Bradlee su quanto duro sia ciò che la sua editrice è costretta a vivere e su cui sta cercando di vincere. Lui, del resto, è stato troppo occupato a fare “il pirata” (come è solitamente soprannominato), a giocare a fare la sua guerra da dietro una scrivania (la vita di redazione è spesso descritta con termini bellici dagli stessi giornalisti e una macchina a mano li segue come in trincea) insieme ai suoi compagni d’avventura (lo stupore infantile di questi quando aprono gli scatoloni contenenti le pagine di McNamara è uno Spielberg che cita se stesso). È a questo punto, quando l’uomo ha la sua presa di coscienza su chi sia effettivamente Kay, che le strade parallele arrivano a incrociarsi portando a due esiti distinti e al contempo complementari. Il primo è il felice compimento dell’avventura, perché, lo ripetiamo, di questo si è trattato per Bradlee e i suoi. Emozionante ed esilarante, in tal senso, è il momento in cui il giornale va finalmente in stampa e la scrivania del fidato Ben Bagdikian trema per effetto delle macchine entrate in funzione. Con la sua musica, John Williams sottolinea il valore di quanto i giornalisti hanno compiuto e la purezza della loro azione. Il secondo è l’aver fatto la storia: il campo lungo che nel pre-finale vede la donna e l’uomo camminare insieme nell’immenso centro stampa del «Post» parla da sé.

In un’America dove un Presidente sembra voler governare da solo, incontrollato, e in cui un nuovo femminismo è sceso in campo, molto più colto e consapevole di quello agli albori cui accenna, il film storico di Spielberg si palesa come un’opera tra le più lucide sul presente, un osservare il passato che diventa un girare la testa per guardarsi intorno. E scegliere.