CINEFORUM / 573

Liberté di Albert Serra

A detta di molti, il miglior film visto nel corso dell’ultima Berlinale è un’opera che film non è. Liberté di Albert Serra, messo in scena al Volksbühne nei giorni del Festival di Berlino, è una pièce teatrale che prende a soggetto il libertinaggio per farne un discorso più ampio, politico, riflettendo ancora una volta su come gli uomini, anche i più carismatici e potenti, non siano che pedine del processo storico – dal quale spesso vengono travolti – e non viceversa.

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell'Ottocento, in una radura vicino a un lago, si incontrano diversi personaggi, che parlano del piacere e che sono legati tra loro da relazioni “di interesse”. Se all’inizio la struttura potrebbe ricordare quella di La Ronde di Max Ophuls, e dunque di Girotondo di Arthur Schnitzler da cui è tratta la pellicola, via via ci si rende conto di essere più vicini a Historia de la meva mort e a La mort de Louis XIV dello stesso Serra, che prosegue l’indagine sul corpo e la macchina. Il passaggio tra i due secoli, tra Illuminismo e Romanticismo, vede in realtà la trasformazione “logica” del corpo macchinico in macchina da lavoro.

Il desiderio degli uomini e delle donne che Serra mette in scena nasce già appagato e sfinito, già al di là. I gesti, gli atti sono ripetuti stancamente, i corpi sono ormai reificati. L’aristocrazia che per prima pratica il libertinaggio, messa alla berlina dal Marchese de Sade, che ne vedeva chiaramente l’ipocrisia tra la condotta attuata di nascosto e la parvenza morigerata, è già in putrefazione e perduta, la parodia di sé stessa. Tutti i personaggi si muovono come marionette, in una specie di carnevale mortifero. I due a tirare le fila, apparentemente, sono una nobildonna (Ingrid Caven) che si aggira nella radura come Hanna Schygulla, moglie di Mefistofele in Faust, si aggirava senza sosta nel film di Aleksandr Sokurov, e un noto libertino, a metà tra Casanova e Don Giovanni, di natura totalmente sadiana (Helmut Berger). Proprio quest’ultimo consiglia di portare il libertinaggio all’interno della borghesia per ottenere la medesima corruzione già compiuta nella classe aristocratica. Per far ciò suggerisce di servirsi delle donne, che mettano a disposizione il loro corpo, per donare piacere (e ottenerlo) sotto compenso.

Dunque, all’interno della logica libertina viene introdotto il denaro, il corpo diventa forza lavoro pagata. La libertà sfrenata e alla portata di tutti non è altro che un abbaglio nel momento in cui questa funge da cavallo di Troia per permettere l’entrata del vero soggetto della società borghese, apice e caduta: il capitalismo. E non è un caso che il libertino che insiste affinché questo passaggio avvenga il più rapidamente possibile, sia in agonia. Il capitalismo è nato già morto, ma è in grado di rigenerarsi in maniera costante, e di dar vita a un contagio. Ogni incontro, ogni scambio, avviene all’interno delle carrozze sulle quali viaggiano i personaggi, o nella loro prossimità. Nonostante una classe sociale stia tramando per pervertirne un’altra, non c’è mai la creazione di un movimento, di un’azione collettiva. La decisione, il gesto, sono sempre individuali, solitari, parcellizzati.

Albert Serra aveva già affrontato in maniera diretta e esplicita la trasformazione del corpo in macchina e della macchina in “umano” in Singularity, video-istallazione presentata al Padiglione della Catalunya nel 2015 durante la Biennale d’Arte a Venezia. Ma se in Singularity l’oggetto del desiderio era l’oro e non tanto il denaro come carta moneta in sé, in Liberté l’attenzione del regista torna alla moneta quale vero e proprio soggetto dirimente. Riproponendo le atmosfere di Historia de la meva mort, ancora una volta Serra opera alla decostruzione del “mito”, non importa si tratti di Don Chisciotte o Casanova, dei Re Magi o di Dracula, se sia una figura storica come Louis XIV o un personaggio di fantasia. Il magnifico lavoro fatto sul “mito” Jean-Pierre Léaud, in questo caso viene ripetuto sui “miti” Ingrid Caven e Helmut Berger. Solito a usare attori non protagonisti – presenti tra l’altro in tutti i suoi film – nel momento in cui sceglie dei veri attori, la scelta non può che cadere su coloro in grado di evocare un immaginario ben preciso.

Serge Daney in Il cinema, e oltre. Diari 1988-1991, scriveva: «Divenuti i modelli dei loro autori, gli attori non erano più gli stessi. Diventavano indimenticabili perché a un certo punto un regista – o il Cinema – li aveva usati per compiere impudentemente un atto d’amore verso se stesso». Léaud che interpreta Louis XIV non è un attore che interpreta il Re Sole, ma letteralmente un pezzo di storia del cinema, con tutti i riferimenti del caso – Antoine Doinel, Truffaut, Godard, Nouvelle Vague, Francia, eccetera – che interpreta un personaggio. E ancor prima di Louis XIV noi non facciamo che vedere “Léaud che interpreta”, che in realtà diviene parte integrante del film e dell’importanza che “quel” film ha in questo momento storico.

Stessa cosa dicasi per Caven e Berger. Ingrid Caven, attrice e cantante, musa e compagna di Fassbinder, ha legato il suo nome a Werner Schroeter e Daniel Schmid, ha lavorato con Jean Eustache e Hans-Jürgen Syberberg. Helmut Berger, scoperto da Visconti, col quale avrà un lungo rapporto professionale e personale, appare agli occhi di tutti come una specie di Dorian Gray, dalla bellezza sfacciata e dalla vita controversa. Entrambe le scelte sembrano quasi “obbligate” proprio per il “gioco di rimandi” tra cinema e vita privata. Ma ancora una volta non è solo la scelta degli interpreti a essere “coerente” con la messa in scena, ma la scelta della lingua e del Paese.

Così come all’indomani degli attentati Serra decide di girare l’agonia di Louis XIV, che oltretutto perde man mano la vista e svela la fine di un’epoca (anche e soprattutto presente), di un’idea che della Francia il mondo si era fatto (e ovviamente dietro all’immaginario collettivo non possono che nascondersi dei cliché), del suo cinema e della sua cultura, nel momento in cui la Germania, pur continuando a dominare la politica economica europea, inizia a mostrare i primi segni di “fatica”, mette in scena Liberté mostrando la debolezza del liberismo e la sua inevitabile sconfitta. E nonostante fosse chiaro già all’alba della Rivoluzione Industriale, il senso di morte e di fine che aleggia nel corso dell’intera pièce appare come un monito per il presente.