Dopo La vita sognata degli angeli e Julia, Érick Zonca dirige il suo terzo lungometraggio, Fleuve noir, uscito per il pubblico italiano con il titolo Black Tide. La sceneggiatura è scritta di suo pugno, ma il soggetto è tratto dal romanzo dell’israeliano Dror Mishani The Missing File, Un caso di scomparsa. Un film ogni dieci anni, come se tra l’uno e l’altro fosse necessario far decantare la materia viva prima che si trasformi in qualcosa di buono, strato dopo strato. E questo film, in effetti, potrebbe essere il frutto di un’opera di sedimentazione: prima l’adattamento della storia, da Tel Aviv a Parigi. Poi la reinterpretazione della trama, che si dischiude mano a mano rivelando ogni volta una nuova versione dei fatti. Fino ad arrivare al cuore di questa vicenda criminale, un noir dai toni cupi e un po’ grotteschi in cui nessuno si scopre innocente. A partire da chi dovrebbe rappresentare l’ordine costituito, il detective François Visconti.
È un tipo strano, il comandante Visconti. Sembra disegnato a immagine e somiglianza del regista: di origini italiane, come Zonca, e con problemi di alcool, come Zonca, potrebbe esser uscito direttamente dalle pagine di un giallo, già con indosso quel suo trench troppo largo e trasandato. Un Philip Marlowe imbastardito dagli stereotipi del polar francese: fuma, beve whisky e si muove praticamente solo di notte mescolandosi con i bassifondi della Capitale, una ville lumière in cui le luci sono quelle dei night e delle banlieue. Si immerge nella malavita fino a rischiare di oltrepassare il limite, pur restando sempre dalla parte della legge. Tanto bravo nel suo mestiere di segugio – seppur con metodi non proprio tradizionali – quanto incapace di essere un buon padre: mentre suo figlio gioca a fare il pusher, Visconti deve mettersi sulle tracce di un altro adolescente. Danny Arnault, figlio di una famiglia borghese, scompare nel nulla. E quando Yann Bellaile, il professore del ragazzo, entra in scena, ecco che abbiamo già il principale sospettato, nonché il colpevole perfetto.
Ma è tutto troppo semplice per essere vero, tutto troppo finto. Come se la soluzione del caso, così lampante, ricalcasse la trama già scritta di un thriller ben congegnato. «C’è un cadavere nel bosco», dice qualcuno. Pure i personaggi parlano con un linguaggio dal forte sapore letterario, mentre, quasi di sfuggita, compaiono citazioni di Franz Kafka e Albert Camus. Finché tutto sembra il frutto di una mente perversa che ama giocare con le parole, oltre che con la vita delle persone. Tra false piste, cliché e qualche colpo di scena, gli indizi vengono suggeriti al telefono da un insegnante che sogna di diventare il nuovo Günter Grass. Le ultime ore di vita del giovane vengono ricostruite, anzi costruite, passo dopo passo come i capitoli di un romanzo. E alla fin fine tutti i protagonisti di questa storia si fanno travolgere dalla follia di una sceneggiatura tortuosa e imprevedibile, quella marea nera del titolo originale. Dove si trova il confine tra realtà e finzione? Tra consenso e violenza? Tra bene e male?
«Voi non conoscete il potere della letteratura», dice Bellaile al commissario. «È come un’investigazione sul mondo». Perché la letteratura ha lo straordinario potere di dire la verità. Ma soprattutto di affascinare e solleticare le nostre fantasie più recondite. Ciò che nessuno di noi avrebbe mai il coraggio di fare. O forse sì, in nome della parola scritta.