I due film che aprono questo numero di «Cineforum», in un accostamento a prima vista un poco bizzarro, declinano in realtà, secondo modalità diverse, temi che li avvicinano significativamente a dispetto dell’immediata lontananza che sembra caratterizzarli.
Innanzitutto, in entrambi la presenza della Storia del secondo Novecento, con le sue radici affondate saldamente nel terreno oscuro di quel pensiero totalitario che ha generato i suoi mostri facendosi forte, nella prassi quotidiana dell’orrore, di un ritorno ai valori cosiddetti “popolari”, tanto meno bisognosi di messa a fuoco rivelatrice quanto più capaci di compattare attorno a sé la necessità stessa di una violenza feroce e autoassolutoria. Nel film di Pawlikowski la ricerca dell’anima polacca come garanzia della ricostruzione culturale di un popolo (appunto) finisce col produrre il calvario amoroso della coppia di protagonisti perennemente allontanati e ostinatamente alla ricerca di una vera, reciproca appartenenza. In questa traslazione continua dal pubblico al privato e viceversa prende forma l’irrimediabile falso movimento di un secolo votato devotamente alla propria autodistruzione attraverso l’annichilimento dei singoli soggetti, impossibilitati così ad esserne gli autentici attori. Nel «remake dichiarato e contrattualizzato» del film di Argento messo a punto da Guadagnino, invece, gli sviluppi novecenteschi della storia e della cultura di un mondo e di un “volk” confluiscono nella scelta del cineasta, di abbandonare l’universo esclusivamente formale della fiaba per calarsi senza indugi nella cornice storica degli eventi e delle combinazioni sotterranee che uniscono diacronicamente l’esoterico e il politico, così come, sincronicamente, differenti formulazioni del terrore. Se il punto di partenza è costituito dalle suggestioni emanate da un testo di riferimento riconosciuto nella sua emblematicità, quello d’arrivo è dunque una riappropriazione della materia oscura che – consapevolmente o meno – quel testo nascondeva nelle proprie pieghe, e nella trasformazione di tale materia nel nucleo generativo di un’opera a tutti gli effetti a sé stante.
La linearità trasparente e progressiva è conseguentemente bandita dall’impianto narrativo dei due film. Se in uno prevale l’andamento ellittico e frammentario (una sorta di cronologia che procede servendosi di buchi temporali utilizzati come passaggi in cui il senso transita nascosto), nell’altro il racconto si sviluppa claustrofobicamente – secondo la lezione più noir che horror – privilegiando la funzione paradossalmente ri/velatrice delle zone in cui l’ombra si fa più fitta. In entrambi i casi siamo di fronte a una struttura narrativa particolarmente adatta a sottolineare tutta l’elusività del Potere, concentrato sulle proprie trame da ordire incessantemente, sui suoi conflitti interni che non possono avere soluzione di continuità.