È un film costruito intorno a una perdita, a una mancanza. Un giorno Laura decide di allontanarsi da casa. Sparisce all'improvviso, senza dire niente a nessuno. Logorata da un malessere segreto (il suo svenimento sul luogo di lavoro; il pianto a cui s'abbandona in bagno); incapace, forse, di sostenere il carico gravoso degli impegni domestici e professionali; trascurata, forse, nei suoi bisogni femminili più profondi da un marito altrimenti affaccendato (1); la donna lascia lo sposo e due bambini piccoli, senza fornire alcuna giustificazione. Svanisce dalla scena e dal film. Solo qualche mese più tardi spedirà ai figli una cartolina dalla Côte d'Opale, dov'era cresciuta, ma dove ormai non conosce più nessuno. Il medico che l'aveva in cura parlerà di lei come di una donna stanchissima e fragile. «Era molto triste», confermerà Betty, la cognata.
Nella vita di Olivier, il marito, si crea un vuoto tremendo. All'orgoglio ferito del maschio abbandonato dalla sua donna si somma un senso di disorientamento, di cupo sconforto. Troppo assorbito dai problemi sul lavoro (nell'azienda dove svolge le mansioni di caposquadra regnano continue tensioni, alimentate dalla dirigenza), Olivier non aveva saputo avvertire i segnali del profondo disagio di cui Laura andava soffrendo. La decisione di lei di andare via di casa lo ha colto di sorpresa, e ora egli si trova da solo a dover fare i conti con una situazione imprevista e difficile a cui sa di non essere preparato: rassicurare i bambini che chiedono ancora della mamma, accudirli, aiutarli a fare i compiti... Segnato dal distacco della donna amata, una ferita ch'egli cerca di sanare allacciando un idillio con una collega di lavoro; frenato, nel rapporto con i figli, da un senso di inadeguatezza (Romain Duris gioca abilmente sulla goffaggine del suo personaggio alle prese con problemi domestici per lui nuovi e che non riesce a gestire); Olivier è ora costretto a rivedere le proprie priorità. Egli è chiamato a dare un nuovo assetto al suo quotidiano, a riorganizzare il rapporto tra la sfera privata (il tempo da dedicare alla famiglia) e la vita professionale, assumendo su di sé nuove responsabilità genitoriali, le stesse che, padre in passato sin troppo assente e distratto, aveva sin qui trascurato.
Torna inevitabilmente alla memoria la parte iniziale di Kramer contro Kramer (Kramer vs. Kramer, 1979), di Robert Benton, una pellicola che Guillaume Senez (2) avrà tenuto ben presente. Qualcuno è arrivato persino a parlare di un remake inconfessato. In realtà anche sul piano narrativo tra i due film si possono cogliere sostanziali differenze. Muta, innanzi tutto, il contesto sociale. I Kramer erano una famiglia della borghesia americana benestante, non assillata da problemi economici. Olivier è un uomo del popolo, abituato a stringere la cinghia (il mutuo della casa ancora da pagare; i vestiti di seconda mano che compra per i figli; la baby sitter che non si può permettere…) (3). Ancora: se Dustin Hoffman, dopo essere stato lasciato dalla moglie, è indotto a mettere da parte le sue ambizioni professionali per poter essere più d'appresso al figlioletto, Olivier cercherà di trovare un punto di convergenza tra gli impegni lavorativi, a cui sa di non poter rinunciare, e quelli domestici. A lui sarà richiesto di giocare un duplice ruolo: quello sociale, di caposquadra determinato a battersi con tutte le sue forze per difendere i diritti dei compagni di lavoro, e quello familiare, di padre impegnato nell'educazione dei propri figli.
Prima di ogni altra cosa, egli deve ora farsi garante del buon funzionamento e dell'armonia del nido domestico, un compito del tutto nuovo per lui e che richiede, come scoprirà assai presto, una dedizione costante («Mio dio, che fatica!», sbotta Betty dopo una serata trascorsa ad accudire i nipotinI «Non mi sorprende che se ne sia andata»). Olivier dovrà imparare a essere insieme padre e madre dei suoi figli e a far fronte alle difficoltà della vita di ogni giorno, non diversamente da come sul lavoro egli è abituato a difendere le ragioni dei dipendenti dalle strategie prevaricatrici della dirigenza. Al tempo stesso a Olivier è richiesto di elaborare il trauma dell'abbandono, respingendo la tentazione del risentimento rancoroso e della vergogna. Solo in tal modo egli arriverà a comprendere che la scelta di Laura di andarsene di casa, quali che siano state le sue motivazioni, non fa necessariamente di lei una donna abietta, una madre snaturata, incapace di amare i propri familiari. Quello che Olivier dovrà compiere è un vero e proprio apprendistato, un laborioso percorso di maturazione che farà di lui una figura genitoriale affidabile. A guidarlo, in questo percorso, saranno soprattutto la madre e la sorella. Saranno loro a fargli capire che la battaglia nella vita familiare è solo la continuazione, con strumenti diversi ma non meno impegnativi, della battaglia sociale sul fronte del lavoro, la stessa a cui Olivier si è sempre dedicato con generosità e passione.
Le nostre battaglie lavora sull'equilibrio e la felice commistione di due generi diversi: il film sociale e il dramma familiare. Del primo la pellicola di Senez ripropone il realismo crudo, energicamente espressivo, che mira a esplorare la quotidianità difficile della classe lavoratrice dei giorni nostri secondo i dettami dell'estetica del disagio sociale: montaggio ellittico, teso a trascurare le scene di raccordo e transizione; piani ravvicinati a isolare il corpo degli attori e a comprimere lo spazio alle loro spalle; disinteresse per l'illustrazione del contesto ambientale (la vicenda si svolge in una non meglio precisata località della provincia francese, tra Calais e Tolosa); rifiuto della musica extradiegetica. Il ricordo va al cinema d'impegno umanitario del Ken Loach degli anni migliori, del primo Cantet, dei fratelli Dardenne, di Brizé.
Ma è soprattutto nelle scene di vita familiare che Senez ha modo di delineare con attenzione e sicurezza di scrittura figure, situazioni, atmosfere, dando corpo a una narrazione densa, vibrante, ricca di informalità e di naturalezza. Lo sguardo dell'autore sa allora essere lucido, perentorio, asciutto nella sua concretezza nervosa e disadorna. Il film ha il merito di eludere le trappole del patetismo incontrollato, gli ingombri melodrammatici, la facile commiserazione. Osservatore impassibile, Senez registra, ma non giudica. La figura stessa del protagonista è da lui disegnata senza alcuna condiscendenza: Olivier è un uomo generoso e appassionato nella sua caparbietà proletaria, ma non privo di difetti. La pellicola si concede alcune audaci rotture di tono: si passa, talora all'interno della stessa scena, dalla rabbia alla tenerezza, dal richiamo insidioso dello smarrimento al calore rasserenante dei sentimenti e degli affetti, dagli slanci di energia vitale alla vergogna e alla desolazione. Ma in generale le scelte di messa in scena mirano alla sobrietà, alla linearità, al rifiuto delle bellurie e degli svolazzi stilistici.
Il punto di forza del film resta sicuramente la prova degli attori. Tutti gli interpreti, liberi di improvvisare durante le riprese sulla base di un semplice canovaccio (la sceneggiatura non prevedeva dialoghi scritti. Senez: «I dialoghi vengono come evocati sul set, io suggerisco la direzione, il senso, il resto viene da loro, confrontandosi»), si applicano in una recitazione priva di artifici, lontana da ogni manierismo, che conferisce un'impressione di freschezza, di spontaneità, di autenticità ai personaggi e alle situazioni.