Le uscite del periodo compreso tra la metà di gennaio e la metà di febbraio, cui si riferiscono le recensioni su questo numero di «Cineforum», sono state numerose e (quasi) tutte attestate su un livello qualitativo medio/alto, sciorinando per di più una varietà di stili e di idee di cinema tale da fornire agli spettatori materiale per visioni quanto mai diversificate. Non si può certo dire che siano state settimane all’insegna della monotonia o, peggio, della noia.
In mezzo a tutti gli altri titoli più noti e oggetto di attenzione e talvolta di diatribe sulle quali non ho nulla da aggiungere in queste righe, vorrei soffermarmi su due che appaiono destinati a una posizione defilata. Entrambi sembrerebbero appartenere, a prima vista, a quel sottogenere che si è andato affermando nell’ultimo decennio: i film “per la memoria”, non a caso pronti per la diffusione a ridosso o addirittura in precisa corrispondenza del 27 gennaio di ogni anno.
Film oggettivamente motivati dalla funzione di supporto spettacolar-intrattenente a quell’idea di memoria, appunto, applicata al tema della shoah, che per decisione delle Nazioni Unite è stata elevata a oggetto di celebrazione ufficiale e che, proprio per questo, fatalmente tende a isolare «gli eventi dal loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti» (Daniele Giglioli, Critica della vittima, Nottetempo Ed., Milano 2014). Si tratta di film che essenzialmente manipolano la Storia, per di più annacquando spesso le loro narrazioni in una retorica di buoni sentimenti e di facile emotività filtrata da sceneggiature compiacenti. Ma non è questo il caso dei due che troverete nelle pagine di questo numero. I bambini di Rue Saint Maur 209 muove proprio dalla sfera della memoria personale di chi si è trovato coinvolto nella retata che si svolse nel condominio situato a quell’indirizzo, il 14 luglio 1942; ma per ricostruire, a partire da quella catastrofe capace di disgregare la comunità formata dalle famiglie che abitavano quegli appartenenti, percorrevano quotidianamente quelle scale e quei corridoi, dai bambini che giocavano in quel cortile, la struttura di un microcosmo che finisce per ricomporsi anche al di là dei ricordi dei singoli, per mezzo degli esili ma precisi fili che poco a poco riescono a ricollegarli. Un palazzo si riscopre, oggi, vera e propria figura di un evento storico dalle dimensioni inconcepibili, allora, per chi lo occupava. A essere sotto tiro in Chi scriverà la nostra storia? è invece il materiale propagandistico con cui gli occupanti nazisti del ghetto di Varsavia intendevano dare un’immagine distorta e inumana dei suoi abitanti. L’operazione viene condotta attraverso il materiale raccolto dallo storico Emanuel Ringelblum, corroborato da un procedimento di reenactment forse un po’ elementare nel suo tentativo di realismo eppure a modo suo necessario per «coinvolgere lo spettatore e perché il passato possa porre domande al presente». Senza voler fare confronti impossibili con il rigore di illustri precedenti, due progetti dal risultato tutt’altro che banale.