Nel mondo sportivo, in particolare quello della pallacanestro statunitense, l’espressione gergale He Got Game viene comunemente utilizzata per indicare un giocatore dotato di un talento unico nel suo genere, in grado di fare la differenza sul parquet. Un fuoriclasse con il pallone tra le mani, diverso da ogni altro al punto da brillare offensivamente e difensivamente. In poche parole, uno dei “detentori” del gioco, destinato a cambiare le regole per sempre. Uno alla Spike Lee, per intenderci: pochi peli sulla lingua, nessun fronzolo narrativo e dritto al cuore dello spettatore. Uno capace di raccontare le proprie origini e le proprie passioni in modo unico, così come accadde nel 1998 con He got Game (appunto), una dichiarazione d’amore filmica rimasta negli annali, non solo del cinema a soggetto sportivo. Un cineasta talmente radicato nella cultura afroamericana, da esserne diventato portavoce e icona, unico nel suo genere nonostante gli sferzanti, iper colorati e striscianti racconti di Fa’ la cosa giusta nel tempo hanno lasciato spazio al depotenziato e ironico BlacKkKlansman.
Un altro regista che, per motivi opposti, sta cercando di distinguersi sul campo è sicuramente Steven Soderbergh, figlio di un’America lontanissima dai ghetti di Brooklyn ma comunque precoce nel raggiungere il successo smascherando in Sesso, bugie e videotape i vizi di un paese sull’orlo di una crisi identitaria tanto spietata quanto imminente (film che gli è valsa la Palma d’oro a Cannes nel 1989). Una carriera altalenante, scevra da vette narrative così convincenti, che ha portato il cineasta di Atlanta a perdersi nei meandri di Hollywood, un sistema capace di inalzarti a nuovo prodigio spesso troppo rapidamente. Nonostante ciò, Soderbergh è riuscito a barcamenarsi, fino a raggiungere un secondo momento di gloria con l’Oscar alla miglior regia per Traffic (2001). Ma ciò che sta avvenendo dietro la sua macchina da presa oggi, in realtà negli ultimi due anni, è qualcosa di sorprendente e unico per un nome del suo calibro. Con la dichiarata volontà di stravolgere e riscrivere le regole e di dimostrare quanto le nuove tecnologie possano traghettare il cinema verso un futuro differente, forse più accessibile, il regista ha diretto gli ultimi due film sedendosi dietro lo schermo di un iPhone.
Non un precursore, bensì uno dei primi con la possibilità di ottenere senza problemi budget alti, che però decide volontariamente di intraprendere una strada diversa. Una scelta non solo figlia del risparmio (ovviamente i costi per le attrezzature sono abbattuti), bensì l’idea che con l’approccio corretto, un plot solido e un po’ di mestiere si possa realizzare un buon film con in mano un telefono rigorosamente in modalità aereo, in modo da evitare fastidiose interruzioni durante i cut più delicati. Una sperimentazione nata nel 2018 con l’ansiogeno Unsane, presentato fuori concorso a Berlino e capace di sollevare il dibattito sull’effettiva necessità di utilizzare uno strumento qualitativamente inferiore rispetto agli standard per realizzare un’opera mostrata in un festival internazionale. Ma, con grande sdegno dei più conservatori, questa scelta di Soderbergh venne difesa proprio perché il cellulare era il fulcro anche narrativo del film, oggetto che prima rappresentava una minaccia per la protagonista, ma che successivamente diventava l’unico mezzo di contatto con gli altri. A solo un anno di distanza e dopo un rapido passaggio allo Slamdance Film Festival (collaterale e contemporaneo rispetto al Sundance, una rassegna per i film a basso budget), Soderbergh ha deciso di far distribuire in esclusiva mondiale dalla piattaforma di streaming Netflix un secondo esperimento simile, High Flying Bird, un racconto ambientato nel mondo in agitazione del basket americano.
L’agente Ray Burke, interpretato da André Holland (già attore con Soderbergh nella serie The Knick), deve affrontare una crisi unica nel suo genere. La lega di basket viene boicottata dall’associazione giocatori, convinti che debbano essergli riconosciuti diritti in più e soprattutto salari più alti. La protesta blocca addirittura l’inizio del campionato, tecnicamente si entra in un periodo di lockout, una serrata disastrosa economicamente per tutti, ma ancor più catastrofica per quei giovani giocatori scelti dalle università, i rookie, rischiano di perdere la possibilità di entrare nella lega. Un sistema molto rigido nel regolamentare la scelta e l’accesso delle nuove leve in un campionato fatto di soldi e fama immediata, ma anche di vademecum comportamentali molto precisi. Proprio Ray deve placare le preoccupazioni di un suo giovanissimo assistito, impaziente e spaventato dalla possibilità di perdere la squadra che l’ha selezionato pochi mesi prima.
La parabola che Soderbergh fotografa con il suo iPhone, giocando su lunghi dialoghi catturati con continui cambi di campo e con una luminosità contrasta al meglio, è quella dell’uomo costretto ad affrontare la crisi, ad arginare ogni imprevisto, ma al contempo spinto ad elaborare possibili soluzioni che squarcino un cielo ormai invisibile a causa di un fitto temporale. Essere dei precursori, distinguersi dalla massa per poter segnare il passo e raggiungere obiettivi fin qui invisibili ai più. Un talento che Ray dimostra alla lunga di avere, ribaltando situazioni al limite e tessendo una fitta tela di contatti, i cui fili possono nel momento giusto rendere gli avversari marionette nelle sue mani. Una situazione che sembra richiamare l’esperienza vissuta dal regista: in un momento di mutazione e crisi del sistema, Soderbergh cerca di proiettarsi verso il futuro dirigendo con una videocamera accessibile a tutti, un budget che non supera i due milioni di dollari e soprattutto parlando della rivoluzione Netflix direttamente su Netflix.
Sta proprio qui il cuore del film, non tanto in un racconto che spesso si perde in un linguaggio pienamente comprensibile solo da i veri appassionati, bensì nella volontà di scendere a patti con coloro i quali rappresentano il cambiamento. Figlio delle polemiche nate a Cannes, proseguite a Venezia e culminate agli Oscar, in cui veniva fatto il conteggio tra i premi vinti da opere apparse in sala e distribuite su piattaforme digitali, High Flying Bird è un esperimento ben riuscito, una sorta di istant movie girato da un ottimo regista, con un basso budget pensato appositamente per un target che andrà a consumare il contenuto sul proprio telefono durante probabilmente un viaggio in treno. Il tutto con la volontà di non uccidere la qualità. Possibile? Forse solo nei casi in cui a raccogliere la sfida ci sia qualcuno capace di scendere in campo e possedere il dono. Come direbbe Spike Lee, He Got game.