«L'immenso coro delle relazioni umane si riduce - nella sua algida ottica - a un crescendo verso la vittoria o la perdita. Sesso e danaro sono le uniche voci ad aver diritto di spietato canto, dentro questo sfibrante concerto. Chiamare lavoro il danaro e amore il sesso non è che una scappatoia eufemistica per indorare la pillola, rendendo più sopportabile la lotta. […] Come il liberalismo economico incontrollato, e per ragioni analoghe, così il liberalismo sessuale produce fenomeni di depauperamento assoluto. Taluni fanno l’amore ogni giorno; altri lo fanno cinque o sei volte in tutta la vita, oppure mai. Taluni fanno l’amore con una decina di donne; altri con nessuna. È ciò che viene chiamato “legge del mercato”. […] In situazione economica perfettamente liberale, c’è chi accumula fortune considerevoli; altri marciscono nella disoccupazione e nella miseria. In situazione sessuale perfettamente liberale, c’è chi ha una vita erotica varia ed eccitante; altri sono ridotti alla masturbazione e alla solitudine. Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta […]. Altrettanto, il liberalismo sessuale è l’estensione del dominio della lotta […]. Taluni vincono su entrambi i fronti; altri perdono su entrambi i fronti» (Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta).
«Per l'occidentale contemporaneo, anche quando gode di buona salute, il pensiero della morte costituisce una sorta di rumore di fondo che si insinua nel suo cervello man mano che progetti e desideri vanno sfumando. Con l'andar del tempo, la presenza di tale rumore si fa sempre più invadente; la si può paragonare a un brusio sordo, talvolta accompagnato da uno schianto. […] Quali che siano le caratteristiche di coraggio, di sangue freddo e di humour che uno può sviluppare durante la propria vita, si finisce sempre e comunque col cuore spezzato. E a quel punto si smette di ridere. Alla resa dei conti rimangono sempre e soltanto solitudine, freddo e silenzio. Alla resa dei conti non c'è altro che la morte» (Michel Houellebecq, Le particelle elementari).
«La differenza principale tra l’America e la Lituania, per come la vedeva Chip, era che in America la minoranza agiata soggiogava la maggioranza bisognosa per mezzo di divertimenti e beni di consumo e farmaci che intorpidivano la mente e uccidevano lo spirito, mentre in Lituania la minoranza potente soggiogava la maggioranza debole con la minaccia della violenza» (Jonathan Franzen, Le correzioni).
«Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti un enorme turbamento, cosa del tutto giustificata, ci basterà ricordare che non si riscontrava notizia nei quaranta volumi della storia universale, sia pur che si trattasse di un solo caso per campione, che fosse mai occorso un fenomeno simile, che trascorresse un giorno intero, con tutte le sue prodighe ventiquattr’ore, fra diurne e notturne, mattutine e vespertine, senza che fosse intervenuto un decesso per malattia, una caduta mortale, un suicidio condotto a buon fine, niente di niente, zero spaccato» (José Saramago, Le intermittenze della morte).
E poi c’è Romolo Bugaro, con quell’Effetto Domino da cui Alessandro Rossetto ha tratto il film omonimo, secondo di finzione dopo anni di documentari e dopo Piccola patria, 2013, girato nelle stesse zone e con la stessa troupe, attori e tecnici. Tratto liberamente, specie per lo spunto che non è più la costruzione di un centro residenziale ma quella di appartamenti di lusso per anziani ricavati dagli hotel abbandonati e messi all’asta di una zona termale del padovano, ma lo spirito del libro c’è ed è uno spirito dolente anche se non cupo, lo spirito di un entomologo (1) che osserva la vita nei suoi meccanismi più elementari, nella lotta per la sopravvivenza che siamo costretti a compiere ogni giorno, sapendo che se non siamo forti, soccombiamo. L’abbiamo ben visto in altri due film presenti come questo a Venezia 76, Martin Eden e The Laundromat, ma anche, in modo diverso, in Joker. Il darwinismo sociale, i vinti di Verga, il gioco del domino (nei titoli di testa con la “i” che cade, come le sue tessere) che deriva dal latino “dominus”, padrone.
Qui il padrone è la finanza e non solo quella veneta, le banche che prima sovvenzionano l’impresa e poi si tirano indietro perché un altro investitore, più potente, vuole mettere “le mani sulla città”, ma quella internazionale, Hong Kong nella fattispecie, in questo mondo globalizzato in cui contano il denaro e gli interessi, non le persone. E non le cose concrete, materiali, quelle che puoi “costruire” come si faceva una volta, con le tue mani e con il tuo lavoro, tuo e magari anche dei tuoi cari. È così per i protagonisti, Rampazzo e Colombo, un piccolo impresario edile e un geometra della vecchia scuola che si fanno però abbagliare dal grande sogno, «far nascere le cose, crearle dal niente», in quello che sembra l’affare della loro vita; e non riescono a contenersi per cui rilevano venti alberghi in demolizione per farne non uno ma duemilacinquecento appartamenti da vendere agli anziani di ogni parte del mondo, per illuderli di una vita infinita e, ça va sans dire, meravigliosa. Senza capire che c’è qualcuno che è più in gamba di loro o comunque che ha più soldi da mettere in campo (2) e che non si fa scrupolo di rubare loro l’idea e di distruggerli, facendo fallire di conseguenza, nell’effetto domino del titolo, tutti coloro che in quell’affare erano coinvolti, con l’inevitabile strascico di disperazione.
E qui ci colleghiamo a un tema portante del film che nel libro non è toccato se non tangenzialmente, quello della morte o meglio della negazione della morte, del tentativo che almeno chi è ricco può mettere in atto di perpetrare la vita all’infinito ritirandosi in una struttura lussuosa e dotata di tutti i confort, quelli medici compresi. Un ospizio per le persone abbienti. Concetto simboleggiato dalla medusa, logo della società che si costituisce a fine film e presente nei titoli di coda in versione rosa su sfondo azzurro intenso, come animale che si rigenera fino a divenire immortale (almeno per quello che riguarda la turritopsis nutricula) (3). In un mondo in cui nel 2050 la popolazione anziana supererà numericamente, per la prima volta nella storia, la popolazione giovane, in Occidente. E in cui forse, tristemente, solo chi avrà molti soldi potrà permettersi di invecchiare.
Se i contenuti e i temi sono diversi, lo stile è molto simile a quello del primo film, con cui condivide anche la dimensione tragica di fondo (4), con la divisione in sei atti e un epilogo. Intanto perché Rossetto mette a frutto la sua esperienza di documentarista e racconta innanzitutto un luogo, un paesaggio, macerie e vestigia di un passato recente di opulenza di una terra, il Nordest, che ha vissuto uno sviluppo senza precedenti qualche decennio fa e che ora deve fare i conti con la crisi e con le leggi di un mondo globalizzato, come si diceva sopra; e questo territorio ce lo mostra in maniera quasi oggettiva inquadrandolo spesso dall’alto (anche con riprese a piombo), in campo lungo, nello squallore dell’abbandono o di una demolizione reale. Però, e questa è la cifra stilistica dell’autore, all’intento documentaristico – realistico, rafforzato dall’uso del dialetto e dal lavoro sul corpo degli attori (corpo immerso in uno spazio, corpo che abita completamente uno spazio) su cui ritorneremo, si affianca un’abilità formale, qui più che in Piccola patria, straniante ed estetizzante, come a correggere il tiro, ad attutire la desolazione. A darle dignità. Per cui inquadrature strepitose, sia nelle immagini fisse (a volte la camera si ferma come ad assaporare ciò che mostra, e si ha la sensazione del frammento, della giustapposizione di quadri come già e forse di più nel primo film) sia nella lentezza dei movimenti di macchina (la fotografia è di Daniel Mazza), ma anche un montaggio serrato (Jacopo Quadri) e la concitazione che serve, quando gli eventi precipitano. La musica, usata alla maniera di Sorrentino (di cui si avverte una forte influenza nella seconda parte, anche in relazione al tema che il regista napoletano ha trattato in Youth), interseca le immagini e ne esalta il significato, alternando Vivaldi alle composizioni di Schievano, Roveran, Vigliar, Cellai; e il lavoro sugli attori (splendidi Mirko Artuso e Diego Ribon) è lo stesso di Piccola patria: sceneggiatura scarna e passibile di modifiche sulla base di quello che emerge al momento, molte prove, verifica di ciò che “tiene” perché l’attore lo sente, e lo porta. In situazione. E in relazione con l’altro e con il paesaggio.
(1) Importante in questo senso è la voce fuori campo, che introduce personaggi e situazioni senza apparentemente giudicarli, citando tra l’altro il Franzen di cui sopra.
(2) E che magari vive in una parte di mondo, quella orientale, in cui conta il “cuore dritto” che è dato dalla rilassatezza unita alla concentrazione, per fare da contrappunto al binomio “lavoro & soldi” che ha caratterizzato il Nordest produttivo degli anni d’oro.
(3) Ma anche come animale bello, che fluttua ammaliante nelle profondità marine, ma che è pronto a colpire con il suo potere urticante, e anche ad uccidere.
(4) La frase più pregnante che viene pronunciata dalla voce fuori campo è la seguente: «Il meccanismo della catastrofe, osservato da vicino, è di una precisione sorprendente», che riecheggia la Prefazione a I Malavoglia di Giovanni Verga: «Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l'attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada quest'immensa corrente dell'attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sovravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani».