Con i suoi ultimi film Martin Scorsese sembra aver optato in maniera definitiva per l’approvazione radicale del principio del falso come cifra di comprensione e/o movente originario del suo lavoro di cineasta. Intendiamoci: non è che il tema della menzogna, del non detto e dell’indicibile capace di palesarsi all’improvviso nel conflitto, nell’atto violento (tanto più violento quanto più imprevedibile, nascosto dietro l’apparenza ingannevole dell’intesa) fosse assente nella sua filmografia precedente. Anzi. Ma il finale ri/velatore di Silence, con la ricomparsa del piccolo crocefisso nascosto tra le mani dell’apostata Rodrigues; le falsità che costellano la struttura narrativa di Rolling Thunder Revue (A Bob Dylan Story By Martin Scorsese, non a caso); la scelta consapevole e dichiarata di realizzare The Irishman sulla base di un libro che raccoglie anche dichiarazioni inattendibili, o apertamente inficiate da legittimi dubbi di veridicità, da parte di un protagonista spinto da cause sulle quali è possibile fare soltanto supposizioni. Ebbene, questo vero e proprio crescendo non può non essere messo in collegamento con una strategia di autosmascheramento, un desiderio di confessione, quasi a voler aprirsi al pubblico e a se stesso in una ricerca di sincerità (di perdono?).
Posizione paradossale, certo, soprattutto se si pensa che la categoria della menzogna, della falsificazione, da sempre si accompagna all’atto del narrare. E questo vale non soltanto a proposito della narrazione cinematografica, anche se nel caso di quest’ultima si aggiungono elementi che spingono in maniera ancora più decisa ed estrema in tale direzione. Narrare i fatti significa automaticamente travisarli: semplicemente inventarli o selezionarli, riportarli in modo inevitabilmente soggettivo, tacendo magari dettagli decisivi in nome delle aspettative e del bisogno di sicurezze da parte dei destinatari del racconto (dobbiamo ancora ricordare una delle battute più famose della storia del cinema sul rapporto tra i fatti e la leggenda?). Ma forse l’operazione di falsificazione più radicale sta proprio nella necessità di dare, attraverso la narrazione, un significato al mondo, a quella rete di relazioni e di azioni e di reazioni che altrimenti davvero non sarebbero che un’accozzaglia di strepiti e furore senza costrutto. Del resto, già la celebre battuta di Macbeth altro non è che una disperata ricerca di senso nel riconoscimento del nonsenso dell’esistenza.
Mi sembra interessante, infine, confrontare la scelta di Scorsese (il falso come cuore nero della narrazione/rappresentazione cinematografica) con il proposito “redentore” che invece Tarantino affida al cinema il compito di mostrare come necessaria la distorsione dei fatti storici (tanto della microstoria quanto della Storia in maiuscolo): due approcci apparentemente differenti alla materia narrabile ma in fondo convergenti nello spirito di irriducibilità che ci trasmettono, circa la posizione e la funzione dei film nell’instancabile revisione degli orizzonti del nostro immaginario.