La vita di una famiglia romana parecchio incasinata: la bambina ha l’asma (forse di origine psicosomatica), la moglie è sempre in ritardo e dimentica tutto, il marito ha un lavoro molto precario e la fedeltà non è il suo forte (non sa frenarsi nemmeno con la devota ragazza alla pari irlandese), il figlio – avuto da un precedente matrimonio di lui con una donna altolocata – passa le serate al bowling a farsi di coca. Il tutto viene osservato da un vicino di casa. È solo, molto ordinato e molto educato e non ha i problemi che angustiano i protagonisti, ma alla fine confessa di provare proprio invidia per tutti i guai con cui questa famiglia italiana quotidianamente deve confrontarsi: sono la “vita” che a lui manca.
Anni fa, Vivere era stato il titolo di una soap opera (la trasmisero, dal 1999 al 2008, le reti Fininvest). E verrebbe da dire che forse anche al film di Francesca Archibugi (e dei co-sceneggiatori Paolo Virzì e Francesco Piccolo, suoi abituali compagni di strada) piacerebbe essere una soap opera. Non – è evidente – per ricalcarne i contenuti stereotipati e la ripetitività, ma piuttosto per avere a disposizione i suoi tempi “infiniti”, e poter quindi seguire, senza i limiti di una storia che deve concludersi nel tempo canonico dei novanta-centoventi minuti, il flusso dell’esistenza di alcuni individui i cui percorsi si incrociano in vario modo. Solo così si potrebbe realizzare quella volontà di osservare la vita, senza giudicarla, partecipando e prendendo gusto, come il vicino di casa, anche agli sbagli, agli inciampi, ai contrasti e ai tradimenti e assaporarne, come diceva un titolo di Piccolo, i “momenti di trascurabile felicità”, mossi dal «desiderio di far parte di un mondo fragile, peggiore […], pieno di problemi complessi ma che fa parte del presente» (Il desiderio di essere come tutti, pag. 181).
Dietro Vivere si intuisce però che vi è anche la volontà di costruire un disegno più ampio, quello del romanziere che tiene i fili di tutte queste storie intrecciate e li ordina in un tutto coerente. E che, per quanto possa amare tutti i suoi personaggi, o perlomeno comprendere le “ragioni” che li muovono, non può fare a meno di “giudicarli” e trarre dalle loro azioni un significato che va oltre il puro flusso dell’esistenza, giungendo a una conclusione che faccia emergere un punto di vista sulla realtà descritta, cogliendo i nessi tra le micro-vicende private e il complessivo quadro politico-sociale nel quale agiscono.
Il problema di Vivere è che, se da un lato non ha il “coraggio” di perseguire la prima direzione, rinunciando alla “comodità” del formato-film a favore del flusso (potenzialmente) infinito della soap opera, dall’altro è ben lungi dal possedere la forza di costruire il grande romanzo che vorrebbe essere. Tutto rimane perciò a metà strada, con i tipici difetti che spesso si riconoscono in questo segmento di produzione italiana di cui Francesca Archibugi è una delle più riconoscibili esponenti. La scrittura lascia talvolta il passo all’improvvisazione e la definizione dei personaggi assume spesso i tratti semplificati della caricatura, adagiandosi sulla comoda ripetizione dei “tipi” a cui gli interpreti (a cominciare dalla Ramazzotti, madre a un tempo forte e svampita) vengono costantemente rinchiusi. Privo di mordente è poi lo sguardo sulla realtà politico-sociale che circonda i personaggi. Qui si mescolano generiche velleità accusatorie verso un “Potere” che – nonostante i cambiamenti solo apparenti (lo strabordante cassonetto della spazzatura, alludendo ai problemi dell’attuale giunta romana, ci dice che le vicende si svolgono in un’Italia dove sono passati i “barbari” grillini) – rimane sempre uguale a se stesso (l’avvocato interpretato da Enrico Montesano ne è la personificazione) e altrettanto semplicistiche conclusioni assolutorie (il finale sussulto di dignità del giornalista precario che, d’un colpo, dovrebbe riscattarne una vita – difficile? Mah… – di bassezze).