Legami di sangue: due fratelli, una donna e una rapina andata a male. Nelle zone di un cupo noir familiare si situa l’esordio del belga Robin Pront, che lavora attentamente su uno sfondo dark davanti al quale emergono i palazzoni, la pioggia e il fumo delle fabbriche. Un’atmosfera malata che sembra guardare da una parte verso l’impassibilità esistenziale del cinema di Kaurismäki, dall’altra ai Coen di Fargo. Kenny è andato in carcere dopo un colpo fallito. Non ha parlato, coprendo così sia il fratello Dave che la sua fidanzata Sylvie. Una volta uscito di prigione però la situazione è cambiata: Sylvie e Dave ora stanno insieme, enon sanno come dirglielo.
Alla base di Le Ardenne c’è la pièce di Jeroen Percceval che nel film interpreta il ruolo di Dave. L’origine teatrale nel film si sente non tanto nel modo di tratteggiare il rapporto tra i due fratelli in cui potrebbero esserci delle tracce shakespeariane, ma el modo di filmare lo spazio, spesso circoscritto, come se il film seguisse l’andamento degli atti monstrandolo attraverso il crescendo drammatico dell’azione. L’esordiente Robin Pront lavora molto sui piani dei volti e sullo sfondo, come per creare un indissolubile, deterministico legame tra i protagonisti e l’ambiente che li circonda. C’è un passato che è già accaduto, del quale i due fratelli si portano addosso le tracce fin dell’inizio del film, con il volto di Dave che esce da una piscina con una calza elastica che gli copre il volto. Pront realizza sicuramente un’opera disturbante, lo sa e segue una sorta di teorema per metterla in pratica. In alcuni momenti riesce a filmare gli scatti di violenza in modo istintivo, come nella scena della discoteca o durante la cena natalizia in famiglia, costruendo la tensione soprattutto sul fatto che Kenny è ancora all’oscuro della relazione tra Dave e Sylvie.
Al tempo stesso, però, Le Ardenne conduce alla carneficina finale esibendo tutti i riferimenti cinematografici, quasi spacciandoli come propri: vuole essere sporco e cattivo, ma Pront pulisce ogni volta la scena del delitto, come se avesse paura di sporcarsi troppo le mani. Si sono chiamati in causa i Dardenne, ma le zone del thriller contaminano ogni inquadratura. Pront al contrario spinge progressivamente sull’acceleratore (per l’omicidio del guardiacaccia sembra essere andato a lezione da Refn), ma poi studia le inquadrature giocando su riflessi dei vetri, degli specchietti retrovisori, e nel finale spreca quello che poteva essere un colpo a sorpresa, ovvero l’invasione degli struzzi.
Il suo Belgio ghiacciato e respingente è mostrato solo a tratti, tra la fisicità del paesaggio e lo sfondo di un palcoscenico. E il suo noir postmoderno manca, dall'inizio alla fine, di un respiro ossessivo, perché Pront stesso cerca un’ironia che non sembra appartenergli (vedasi la scena in cui Dave chiede al suo capo, mentre sta guardando la partita di calcio, di assumere il fratello all’autolavaggio) e gestisce un po' troppo “autorialmente” alcuni dialoghi: «Che cosa direi?», «La verità», «Che cosa ne sai della verità?». L’impeto va a intermittenza, e Le Ardenne sembra raccontarci un’altra storia.