In Cile, la Cordigliera delle Ande sovrasta qualsiasi cosa. È lì da prima dell’uomo, e molto probabilmente sarà ancora lì quando l’uomo non ci sarà più. In qualunque angolo del Cile ci si trovi, basta alzare lo sguardo per vederla. Eppure, i cileni quasi non ci fanno caso; sanno che è lì, la vedono ogni giorno, ma non la osservano mai direttamente; non notano il suo cambiare forma, il suo espandersi continuo. Quel che si trovano davanti quotidianamente, l’immagine che tutti hanno in mente, quasi marchiata a fuoco, non è la Cordigliera, ma la sua rappresentazione: che sia nei corridoi della metropolitana, sulle scatole dei fiammiferi o nei quadri degli artisti di strada, nell’immaginario collettivo cileno c’è la reinterpretazione artistica della realtà.
È da quest’idea che nasce La cordillera de los sueños, il nuovo documentario di Patricio Guzmán. Il regista cileno, che dal fatidico 11 settembre 1973 in cui l’esercito sotto il comando di Pinochet rovesciò il governo di Salvador Allende vive lontano dal paese natale, riflette sul concetto di immaginario, di identità e di memoria condivisa attraverso un flusso ininterrotto di pensieri, sogni e speranze. Guzmán scava nelle rovine della memoria, costruisce un confronto tra la sua idea platonica di Cile e lo stato attuale e reale delle cose; lo fa alternando immagini fluttuanti e quasi oniriche, interviste e filmati d’archivio, modellando lentamente un ritratto intimo, consapevole e struggente del suo Paese. Una lettera rivolta a un amore giovanile perduto il cui ricordo non è mai sbiadito.
Nel sogno di Guzmán l’unica via per capire dov’è finita una certa idea di mondo ormai scomparsa e per provare a riportarla in vita è passare attraverso l’arte, mettendo insieme i pezzi, gli sguardi, le opere di persone che hanno saputo imprigionare l’essenza di un momento, di un’atmosfera, di uno spirito, cristallizzandoli per sempre in un museo ideale, autentico e sincero. Collezionando questi frammenti è possibile riportare in vita intere storie di resistenza e di amore.
C’è chi per motivi politici, come Guzmán, è stato costretto a farlo a distanza, chi invece è rimasto sempre nel vivo degli eventi ed è riuscito a regalare una fondamentale testimonianza diretta di quel che è successo negli anni. Attraversare questo museo, accompagnati dalla voce fuori campo del regista cileno, significa compiere un viaggio nel tempo, ma soprattutto prendere coscienza dell’importanza cruciale del continuare a rappresentare, rielaborare, reinterpretare, documentare la realtà per poterla capire nel suo profondo.