12 anni schiavo di Steve McQueen

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Questa sera su Canale 5 alle 21:25 andrà in onda 12 anni schiavo il film del regista britannico Steve McQueen vincitore di tre statuette (fra cui quella per il miglior film) agli Oscar 2014. Qui sotto un estratto della nostra recensione – a firma di Tina Porcelli – uscita su Cineforum 533 dell'aprile 2014.


Per Steve McQueen i film non si guardano a rassicurante distanza di sicurezza. Non bisogna iniettare dosi distillate di sentimentalismo fino a condurre gli spettatori all’apice della commozione. Nei film, bisogna entrarci dentro. Subito. Ecco perché 12 anni schiavo non inizia dal principio della storia di Solomon Northup, ma quando lui è già in schiavitù. Il supervisore di una piantagione spiega ai nuovi arrivati come tagliare le altissime canne e poi li controlla dalla comoda postazione di una carrozza, seduto accanto al proprietario che si fa aria con il ventaglio. Solo in seguito, attraverso intermittenti flashback, ci rendiamo progressivamente conto di come la vita normale di un libero cittadino americano sia potuta diventare un incubo. Perché è proprio in un incubo che piomba Solomon quando, dai fasti notturni del ristorante di Washington, si risveglia incatenato mani e piedi in una cella buia e spoglia. Pensa a un errore ma purtroppo scoprirà presto, e a caro prezzo, di essere la vittima di un complotto ordito da mercanti di schiavi.

La sua vita serena non esiste più e lui è trasportato clandestinamente in una piantagione della Louisiana, un mondo sommerso di ferocia e sopraffazione, dove l’essere umano è solo bestiame di valore e merce di scambio, carne da sfruttare fino a diventare carcassa inutile. Negli anni in cui il film si svolge, tutto ciò poteva accadere a qualunque cittadino di colore. Per il regista non si tratta quindi di raccontare la storia di un singolo uomo, ma il dramma di un intero popolo, pari a quello dell’Olocausto per la storia europea. Con queste premesse, guai a citare Django Unchained al regista di colore Steve McQueen, perché per lui è impossibile guardare con il registro distaccato dell’ironia una delle pagine più buie della storia americana che lo tocca così da vicino (gli antenati di sua madre erano schiavi provenienti dal Ghana). D’altronde, il protagonista di 12 anni schiavo non ha niente a che vedere con l’animale da combattimento del film di Tarantino. Lo schiavo Platt è un uomo sensibile che sa leggere e scrivere, incanta per la sua bravura nel suonare il violino, e tenta in tutti i modi di fare avere sue notizie ai familiari, in un’epoca in cui il semplice gesto di redigere una lettera poteva costare la vita. Tratto dall’omonima biografia di Solomon Northop, pubblicata nel 1853 e suggerita a McQueen dalla moglie, la storica Bianca Stigter, 12 anni schiavo è un film di afflato epico molto diverso dalle precedenti opere del regista, eppure contiene riconoscibili elementi di continuità visiva, come per esempio l’utilizzo di sonorità intense e vibranti accostate a dettagli macro, oppure la presenza di piccole azioni apparentemente trascurabili sullo sfondo dell’inquadratura che invece rafforzano, per contrasto, l’immagine del primo piano.

Ma bisogna riconoscere al regista un talentuoso e potente senso dell’immagine, soprattutto nello scandire in modo indelebile alcuni momenti chiave della narrazione. Primo su tutti quando, per aver incautamente reagito ai soprusi di Tibeats, Solomon viene appeso a un grande albero in attesa che il proprietario della piantagione, che ha un’ipoteca sulla sua vita, torni per decidere della sua sorte. E mentre, sullo sfondo, la vita degli altri procede secondo la routine quotidiana, Solomon viene lasciato l’intera giornata appeso a un ramo con un cappio al collo, legato mani e piedi, a testa scoperta, con una temperatura abbondantemente sopra i quaranta gradi e le funi che torturano le membra intorpidite e sempre più gonfie. È solo una delle tappe della sua personale via crucis che raggiungerà l’apice quando sarà venduto a Edwin Epps, magnificamente interpretato da Michael Fassbender, che riesce a infondere nel personaggio – nel libro soltanto rozzo e bifolco – una delirante follia e un groviglio interiore tra razionalità e delirio passionale.

Per tutto il film, Solomon è obbligato a nascondere la sua natura, a fingersi meno di quello che è, a compiere atti terribili e persino a spergiurare il falso, in una memorabile scena notturna tra lui ed Epps, alla luce della lanterna che li trasforma in una sorta di quadro vivente va in scena un faccia a faccia che descrive come la salvezza sia attaccata – a volte – alla credibilità di una menzogna. Se il Bobby Sands di Hunger si spezzava, prosciugato dallo sciopero della fame spinto fino all’estremo per non abdicare dalle proprie convinzioni, al contrario il Solomon di 12 anni schiavo si piega come una canna ma non si spezza, riesce a passare attraverso l’inferno e a tornare vivo dalla propria famiglia. Così, questo film di forte denuncia, in fondo ci racconta anche una storia molto quotidiana e contemporanea di tante persone che devono accettare di snaturare un po’ se stesse per sopravvivere, in un mondo lavorativo fatto troppo spesso di soprusi e sempre meno di diritti